La mia precedente visita in Tunisia, novembre 2003, era coincisa con il crepuscolo del mese di Ramadan.
La conclusione del Ramadan è sancita da quell’esplosione d’incontenibile euforia che è l’Eid al Fitr – la festa dell’interruzione; si respira, nei paesi islamici, la stessa contagiosa ebbrezza che coglie i cattolici approssimandosi il Natale (chi fosse esclusivamente interessato alla ricetta “Chorba Frik”, una zuppa profumata e sapidissima a base di legumi, che presento nella sua versione vegetariana, può cliccare il link ).
A novembre 2003 appariva un ossimoro l’ipotesi stessa di una sollevazione spontanea di popolo che potesse sradicare un sistema politico mafioso, un bubbone d’intrallazzi che si reggeva sull’adulazione e su una spietata repressione del dissenso (la cricca dei Trabelsi – il clan che faceva capo all’ex parrucchiera Leïla, la seconda moglie del Presidente Ben Alì – tirava le fila di un’estesa rete di tangenti e favori); il cardiogramma della contestazione era statico, l’unica, flebile propulsione che fluttuava dalla società civile era un moto di pavida deferenza verso un potere muscolare arroccato nella sua presunzione d’eternità.
Ogni risorsa degli apparati d’intelligence, allora, era concentrata nel monitoraggio delle turbolente frontiere montuose con l’Algeria, nel tentativo di circoscrivere l’azione eversiva dei gruppi terroristici, d’impedire che esportassero la lotta armata, infiltrando la società tunisina, la più secolare del Maghreb – almeno a livello di centri urbani (e, naturalmente, contestualizzando il concetto di secolarizzazione in una cornice più generale di morigeratezza islamica). Blindati della polizia presidiavano i gangli della capitale per tranquillizzare la popolazione sul fatto che il regime aveva la situazione saldamente sotto controllo e che mai si sarebbe verificata una deriva fondamentalista.
A Eid al Fitr mezza Tunisia si mette in viaggio, spesso verso i villaggi dell’interno, per ricongiungersi con i propri cari e celebrare la ricorrenza nell’intimità della famiglia. Ovunque regna un’atmosfera gravida d’eccitazione e speranza: si sono consolidati i legami con Dio attraverso quella sfibrante testimonianza di fede che è il mese del digiuno (basandosi sul calendario lunare, vi è uno slittamento costante nella cadenza del Ramadan, la cui osservanza diventa particolarmente onerosa durante i torridi mesi estivi) e ci si appresta a riannodare le fila della routine quotidiana, fortificati nello spirito, più consapevoli, più ottimisti.
Certo non è il periodo più azzeccato per dedicarsi al turismo itinerante, anche se può essere curioso da un punto di vista antropologico. I trasporti vanno con il contagocce (ad esempio per i treni vige un orario ridotto all’osso) e alla vigilia dell’Eid i luoage (taxi collettivi, in genere dei van Toyota Hiace, con una fascia rossa impressa sulla carrozzeria di quelli che effettuano servizio intercity e gialla sugli urbani) sono letteralmente, selvaggiamente, presi d’assalto da orde assatanate di gente disposta a qualsiasi bassezza pur d’accaparrarsi un posto a sedere; se durante Ramadan mangiare fuori casa è decisamente complicato e di certo inopportuno farlo in bella vista, almeno fino al tramonto del sole, nei giorni dell’Eid è improbo trovare un buco aperto in cui consumare un pasto decente a qualsiasi ora del giorno e della sera.
Proprio a causa delle restrizioni e del susseguirsi di chiusure festive, quello del 2003 non fu un viaggio memorabile sotto il profilo gastronomico.
Non riuscii neppure a intrecciare relazioni sociali così intime da strappare un invito a cena in una casa privata, che sarebbe stata l’unica alternativa soddisfacente alla penuria di ristoranti aperti. Nel piattume dell’offerta, ricordo ancora, a distanza di tre lustri, il retrogusto sabbioso di uno squallido cuscus d’agnello, ammannito in una bettola claustrofobica della capitale e condito da una fumata di pipa ad acqua con tabacco puro e non aromatizzato. Come fare dei gargarismi con il catrame.
Riscattare quell’esperienza insulsa, cercando di carpire qualche segreto culinario alle massaie locali, è lo scopo del mio ritorno. E poi Tunisi è il luogo perfetto per meditare. Non soffre dei difetti più macroscopici delle conurbazioni contemporanee, che appaiono o troppo addomesticate, quasi dei set cinematografici senza alcun tessuto vitale dietro le facciate impeccabili, o agglomerati d’alienante solitudine che incubano contrasti profondi, eccessi di miseria enfatizzati da eccessi d’indifferenza.
La prima traccia dei drastici mutamenti post Rivoluzione la noto sbarcando dal traghetto all’avamporto della Goulette: sono spariti dalla circolazione i ritratti del Presidente Ben Ali che erano una costante iconografica ossessiva. Il culto quasi mistico del corpo del leader è la cifra dei regimi dispotici.
L’effigie di quell’ometto trascurabile – privo di un reale carisma, impomatato e con un ghigno sadico, infagottato nei suoi austeri completi scuri, il volto posticcio d’iniezioni di botulino nell’intento di cristallizzarne le fattezze in una giovinezza sempre più patetica e improbabile – veniva rimbalzata da uffici pubblici e negozi. I tunisini crescevano a pane e cartonati di Ben Ali, si cementava tra il rais e il volgo una sorta di sudditanza psicologica, d’identificazione paterna che prescindeva da ogni valutazione etica del suo operato; defenestrare Ben Ali equivaleva a commettere parricidio.
Mi raccontava un amico che anche la crosta a olio dell’ex Presidente che campeggiava nella sede della Compagnia di Navigazione Tunisina nel porto di Genova fu rimossa dopo la sua caduta con sollecito e strategico servilismo.
Secondo indizio del nuovo corso: una libertà di stampa impensabile ai tempi della dittatura che ho potuto apprezzare consultando i quotidiani in lingua francese che le edicole e gli strilloni smerciano alla tariffa quasi calmierata di 1 dinaro. Sono pochi fogli stringati, con un impaginazione priva di ghirigori, e non quella messe di notizie, talvolta persino ridondante, che affolla le colonne dei nostri quotidiani. Interni, una panoramica sul mondo con uno sguardo attento all’Africa, qualche elzeviro, molto sport, annunci pubblicitari. Però non si fanno sconti: piovono critiche circostanziate al Presidente, all’azione di governo, al partito d’ispirazione islamica Ennhada.
La libertà d’espressione è tuttavia una conquista effimera, mai scontata. La percezione della sua fragilità (sulla base di un campione rappresentativo di 1054 individui sondato dal giornale Le Temps nel febbraio 2019) è confermata dal 45% degli intervistati che la ritengono “minacciata”.
Durante la mia permanenza si sono registrate inquietanti intimidazioni a un giornalista televisivo, Hamza Belloumi, autore di un reportage che stigmatizzava gravi maltrattamenti, tra cui abusi sessuali, su 42 allievi di una scuola coranica illegale a Regueb nel governatorato di Sidi Bouazid. L’inchiesta aveva sollevato un vespaio di proteste negli ambienti ortodossi, non certo improntate all’autocritica.
Il comportamento criminoso dello Sheikh della Scuola passava totalmente in secondo piano e non frenava la faziosità dei più invasati che leggevano la denuncia di Belloumi non come la cartina di tornasole di un sistema educativo deteriorato da riformare fin dalle fondamenta ma piuttosto in un’ottica ideologica, addirittura alla stregua di un’offesa a Dio.
Nei tanti caffè della capitale (dove va di gran moda l’espresso italiano in tazzina di ceramica) si discute appassionatamente dei risvolti della politica: chi sottolinea i limiti concettuali della Rivoluzione con le sue intrinseche contraddizioni, chi si sofferma sul momento di stagnazione economica che alimenta il malcontento e potrebbe favorire un’islamizzazione sempre più capillare della società, chi scommette fiducioso sul futuro, chi lamenta che delle libertà civili conquistate poco importa se hai la pancia che brontola, chi guarda ammaliato agli eldoradi d’oltremare, chi vuole plasmare l’identità liberale della Tunisia, restando e impegnandosi nella lotta giorno dopo giorno. Chi argomenta in modo più articolato, chi propina stereotipi. Insomma quel concerto disparato d’opinioni e stati d’animo che ci si può attendere dalle persone comuni quando si affrontano cambiamenti epocali, destabilizzanti.
Mentre incombono le elezioni presidenziali, il quadro politico appare frammentario, specchio della disillusione nei confronti di una classe politica che arranca. Nella corsa alla massima carica del paese il capo di gabinetto Youssef Chaed, in ascesa, si attesta al 13,7 % (in base alla rilevazione già citata di Le Temps). L’attuale Presidente Essebsi è inchiodato al 4,80%, sul terzo gradino del podio, sopravanzato dall’ex Presidente Marzouki, quotato al 5,20%. Quanto alle intenzioni di voto per le elezioni legislative, il partito Ennhada (che nei mesi successivi al trionfo della Rivoluzione sembrava destinato a esercitare un’egemonia diffusa sulla società civile), per quanto ridimensionato, rimane comunque il più gettonato con un ragguardevole 18%.
La tenuta di Ennhada indica che una frangia della società tunisina è calamitata dall’abbraccio suadente, non discriminatorio dei movimenti di matrice religiosa; le élite, i ceti più occidentalizzati, spingono viceversa l’acceleratore di un laicismo egualmente dogmatico e intransigente nel rifiutare ogni mediazione con competitor che reputano retrogradi. La sfida – tanto dei tunisini come, ormai, dei cittadini di qualunque stato democratico – è conciliare gli estremismi propugnando posizioni di buon senso che rispettino la sensibilità delle diverse anime del paese, senza scollarle.
Soggiorno in un appartamento con una corte interna impreziosita da affascinanti maioliche, poco fuori le mura della Medina, verso Bab Saadoun. La padrona di casa si proclama atea senza troppi fronzoli e questa rivendicazione orgogliosa, indossata come un guanto di sfida al mondo della tradizione e che un tunisino conservatore potrebbe bollare come blasfema, è un segno dei tempi che evolvono, anche se si tratta, temo, soltanto della punta luminosa di un iceberg la cui parte sommersa è ancora molto torbida. I pregiudizi incancreniscono le coscienze e sono duri a morire; in un certo qual modo costituiscono un salvagente per chi si sente smarrito di fronte a un aggiornamento dei costumi e del modo di pensare che non è attrezzato a gestire.
La ricca biblioteca domestica è fornita di saggi che sviscerano le dinamiche della Rivoluzione da ogni possibile angolazione, analizzandone i presupposti e l’eredità. Consulto superficialmente qualche scritto per farmi un’infarinatura.
Prima di partire ho acquistato un volume, “L’Italiano“, di Shoukri al Mabkhout, vincitore dell’International Prize for Arabic Fiction. L’autore occupa la carica di Rettore dell’Università al Manouba. Domando alla mia padrona di casa se conosce il libro e come lo valuta. Mi risponde che avendo studiato all’Università al Manouba, più che il contenuto di quel testo, conosce i convincimenti del romanziere che considera un campione di quel laicismo integralista e militante che è solo l’altra faccia della medaglia del fanatismo islamico.
Osservandola armeggiare ispirata ai fornelli, le chiedo se posso prendere degli appunti. Nel corso della settimana mi consente così di assistere alla preparazione di alcuni piatti classici.
Il cuscus in primis, l’emblema stesso della cucina tunisina (il segreto di una cottura ideale è quello d’idratare di tanto in tanto i granelli di semola – alloggiati nel cestello superiore della vaporiera – con un mestolo del liquido in cui vengono fatti bollire verdure/carni); i brick o malsouka – sottili piadine d’acqua, farina di frumento e sale – che, farciti con uova, tonno e prezzemolo, vengono fritti in abbondante olio di semi (sul sito dell’azienda Elgamra, leader nel settore della produzione dei brick, si annoverano numerose ricette con le piadine tunisine protagoniste); la ojja merguez, – “merguez” è una salsiccia aromatizzata, ovviamente non di maiale, può essere di manzo, tacchino o montone; nella ojja rocchi d’insaccato vengono cotti con uova, salsa di pomodoro, cipolla, harissa (una pasta di peperoncino rosso abbastanza piccante che i tunisini aggiungono quasi su ogni cibo, una sorta di fissazione nazionale) e una presa di ras el hanout (un blend di spezie, da 2 fino a 20, a seconda del gusto del droghiere che le combina).
Il lablabi è una specie di denso pancotto a base di ceci, un’icona dello street food tunisino. All’ombra dei porticati che orlano Bab Souika, la porta del piccolo suk, dove nastri e gasse a righe giallo-rosse addobbano la sede della società calcistica Esperance, vi è un bistrot specializzato in lablabi. L’estetica preparatoria del lablabi è avvincente (vedi video e foto), vuoi per le capienti ciotole di terracotta invetriata che si usano, vuoi per il rituale a cui ogni avventore deve sottostare, smollicando con le proprie mani del pane nella ciotola che il cuciniere inzuppa con il brodo e poi guarnisce, rompendovi un uovo e condendo con abbondante olio d’oliva.
La ricetta del lablabi (che traggo da un datato manuale dell’89 sulla cucina maghrebina compilato dall’attrice, scrittrice e cineasta Haydee Tamzali), per 6-8 commensali, prevede la cottura di 250 gr. di ceci (ammollati per una notte in precedenza) per circa 1 ora e 40 in acqua con un cucchiaio da minestra di cumino, 1 cucchiaino da caffè di paprika forte o dolce, 1 d’harissa, una testa d’aglio, 1 tazzina da caffè d’olio d’oliva, sale. Al termine della cottura si può conferire una nota acida alla pietanza irrorandola di succo di limone.
Tra tutte le ricette apprese, quella che mi ha più intrigato e che ripropongo, come scrivevo all’inizio del post, è la deliziosa zuppa d’orzo molato, “Chorba frik“.
Il termine arabo trascritto in caratteri latini Frik, impostando la ricerca su internet, viene associato di frequente a una specifica varietà di legume, il triticum turgidum, detto anche freekeh. In realtà frik significa “spezzettato”, “macinato”, in riferimento piuttosto alla tecnica di lavorazione del legume. In Tunisia, se si ordina del frik sui banchi del mercato, si sottintendono minuzie d’orzo, integrali o decorticate, con una granulometria da fine a media, e assolutamente non frumento.
Si può cucinare una Chorba frik in brodo di carne d’agnello o pollo oppure, come nel mio caso, prediligere la versione vegetariana.
Ricetta Chorba Frik (vegetariana)
🔪Ingredienti🔪
2 scalogni
1 felfel (peperoncino verde a cornetto, oblungo, non troppo piccante. Possiamo impiegare 1 peperoncino calabro verde che, quanto a piccantezza, si equivale);
4 spicchi d’aglio
3 cucchiai da minestra di concentrato di pomodoro;
4 pugni di lenticchie;
4 pugni di fave secche;
5 cucchiai di frik medio;
sale e pepe q.b.;
prezzemolo (3/4 rametti);
coriandolo (3/4 rametti ma io lo ometto, non amandolo, e aumento la dose di prezzemolo);
3 pomodori freschi.
Far soffriggere a fiamma media in una casseruola lo scalogno tagliato sottile con il concentrato di pomodoro (il concentrato è un ingrediente in voga nelle cucine “etniche”), allungando dopo un minuto con 1/2 bicchiere d’acqua.
Incorporare il peperone, tagliato a rondelle, e i pomodori a dadini. Far insaporire.
Unire le lenticchie e le fave secche (controllare sulla confezione se è necessario un ammollo preventivo o il risciacquo del prodotto). Salare e pepare. Coprire con acqua fino ai due terzi della pentola, portare a bollore, coperchiare e lasciare cuocere sempre a fiamma media per 40 minuti (eventualmente, se dovesse asciugarsi, aggiungere acqua).
Nel mentre, in un mortaio, lavorare i quattro spicchi d’aglio, dopo averli scamiciati, con il pestello, aiutandosi con un filo d’olio, fino a ottenere un amalgama il più possibile fluido e omogeneo.
A parte tritare prezzemolo e coriandolo.
Trascorsi 40 minuti, incorporare il frik alla zuppa e continuare la cottura per ulteriori 10 minuti con coperchio. Spegnere il fuoco, unire l’aglio e il prezzemolo/coriandolo, un filo d’olio evo a crudo e mescolare il composto.
Lasciare riposare almeno 30 minuti per poter apprezzare le singole sfaccettature di sapore. La zuppa è più buona se consumata a distanza di ore o il giorno dopo. Si può abbinare alla zuppa un calice di vino rosso fruttato.
Non è un accostamento incoerente. In Tunisia, infatti, nonostante le rigide proibizioni coraniche, la viticoltura prospera. Il vino (rosso, bianco e rosè), prodotto nelle vigne del nord est del paese, principalmente da ceppi d’uva Malbec, Syrah e Chardonnay, è destinato per il 70% al consumo locale. Viene venduto nei supermercati (Monoprix e Carrefour, ad esempio) senza dover sottostare a formalismi di sorta, a differenza d’altri paesi islamici che contemplano astrusi iter burocratici per ottenere un permesso speciale, non rilasciato comunque ai cittadini musulmani. Una delle marche migliore è il Magon (Vieux Magon è il top). Molti tunisini sono indefessi bevitori. La sola accortezza che adottano per non incorrere nel biasimo dei loro correligionari più integerrimi è quella di camuffare, all’uscita dal negozio, in sporte opache l’acquisto di bottiglie.
Riguardo alla Rivoluzione Tunisina vi rimando anche al post “Genesi di una rivoluzione”.