In questo post racconto i risvolti della religiosità popolare argentina e, sul versante gastronomico, omaggio le radici italiane (e soprattutto genovesi) di questa nazione melting pot, proponendo la ricetta del tuco (il “tuccu”, il ragù di carne alla genovese. Per andare direttamente alla sezione della ricetta clicca qui).
Sebbene l’abbinamento più tradizionale del tuco sia con i fideos (spaghetti) o i tallarines (tagliolini), ricordo ancora con nostalgia gli gnocchi di patate caserecci, intrisi di tuco, sapienza e passione, che gustai a Colonia Pellegrini, provincia di Corrientes, ammanniti da Doňa Mariana, factotum e cuoca globetrotter d’ascendenze olandesi, a servizio in una delle tante posadas che costellano il reticolato di quadras e manzanas della Colonia (la quadra equivale allo spazio lineare compreso tra due incroci, la manzana corrisponde a un isolato di forma rettangolare o quadrata. È uno schema urbanistico estremamente razionale in cui ci s’imbatte di frequente in Sud America, mutuato dalla planimetria a castrum delle città di fondazione spagnola).
Religiosità popolare. Se si vuole misurare la devozione degli argentini, testarne il tasso di fervore, bisogna evadere dalla religiosità ingessata che si pratica nelle chiese per inoltrarsi nel sottobosco dei santi popolari, nutrito e affascinante.
Nel pantheon dei “santi popolari” rientrano quelle figure, spesso pittoresche, che la Chiesa non ha mai canonizzato poiché prive dei necessari quarti di nobiltà ma che, obtorto collo, si trova costretta a tollerare, essendo oggetto di una venerazione spontanea e tenace, rispetto alla quale drastiche posizioni di rigore risulterebbero autolesionistiche.
Potremmo definire l’ambiguo barcamenarsi dell’establishment cattolico un’oculata, cinica strategia di marketing spirituale.
Ufficialmente l’attitudine della Chiesa è iconoclasta verso le manifestazioni della fede che deviano in maniera più o meno velata dai binari dell’ortodossia, manifestazioni che vengono ora bollate come retaggio di culti ancestrali, ora denigrate come volgari superstizioni da debellare; sottobanco però si chiude un occhio e ci si conforma a una realtà che, pur stigmatizzandola, non si può in alcun modo condizionare.
Nei suoi equilibrismi, il compromesso a cui deve sottostare la Chiesa rasenta a volte il paradosso.
Succede, ad esempio, che il clero – per rispondere alle pressioni della “base” – venga autorizzato a officiare le messe che celebrano una qualche ricorrenza legata al culto dei santi popolari (di solito la data del loro martirio), la Chiesa, cioè, invia i propri ministri direttamente nella “tana del diavolo”.
A mio avviso, tuttavia, la pietas verace che impronta il culto dei santi popolari è linfa iniettata in un organismo – quello della dottrina – esangue; i dogmi intrigano poco la gente semplice che cerca nella religione un conforto immediato. Un’utilità spiccia. Do ut des. Nella sua trascendenza, Dio può apparire un mistero insondabile, fin troppo cerebrale; suppliscono i santi popolari, i santi della porta accanto, che parlano la lingua degli umili e non esitano a soccorrerci nelle tribolazioni.
Questo modo d’interpretare la fede, così poco convenzionale, così stravagante, è la cifra che qualifica tutto il cattolicesimo latino-americano.
Transitando per Copacabana, Bolivia, è persino ostentato il sincretismo tra i precetti evangelici e le influenze di matrice sciamanica che li innervano.
In base alle scadenze di un calendario, affisso nella bacheca parrocchiale, vengono impartite dal curato benedizioni agli autoveicoli nuovi di zecca mediante un pomposo rituale liturgico d’aspersione. I mezzi sono allineati, con il cofano sollevato e le cromature sfavillanti, addobbati come bomboniere; i loro proprietari gongolano come se assistessero al battesimo del primogenito.
Rimettersi ai buoni uffici della divina provvidenza è un sistema di protezione dai sinistri certo meno oneroso che pagarsi una polizza o effettuare una manutenzione costante del veicolo. Anzi: il canale mistico risulta più in sintonia con il fatalismo sudamericano, piuttosto assolutorio, per cui se un incidente deve accadere, accadrà, a prescindere dalla prudenza del guidatore o dallo stato del veicolo.
Al termine della tortuosa via crucis che s’inerpica lungo i versanti del Cerro Rico, il monte che torreggia sui tetti di Copacabana, i fedeli depongono modellini di casa (maquetas) o delle mazzette fac-simile di banconote accanto alla statuetta di Ekeko (divinità simbolo di prosperità nella cultura inka), con la speranza di ragranellare buona sorte o magari di vedersi piovere dal cielo, chissà come, l’agognata ricchezza; inoltre, se si vuole spezzare la salita impervia alla vetta e rifiatare, in una radura che si apre a metà dell’ascesa, gli Yatiri – curanderos d’etnia aymara – vegliati da una Madonnina in ghingheri barocchi e da un Cristo gigante, profetizzano il domani davanti a rozzi cubi di cemento, lanciando in aria foglie di coca e interpretando la configurazione che assumono, ricadendo, su un panno.
Torniamo all’Argentina e alle cronache dei suoi Santi Popolari. Chiunque viaggi per il territorio di questa sconfinata nazione, anche se ne sta attraversando le lande più remote, noterà dei gonfaloni rossi infissi sul ciglio della ruta. Marcano la presenza di un santuario (talvolta nulla più che una sparuta edicola) dedicato al Gauchito Gil.
Volendo stilare una hall of fame dei santi popolari argentini, il posto d’onore è senza alcun dubbio appannaggio di Antonio Mamerto Gil Nuñez, il “Gauchito Gil”.
Il colore rosso che connota il personaggio del Gauchito e tutto il merchandising che gli orbita intorno, secondo alcune vulgate, deriva dalla devozione che egli riservò a San Baltasar, il re magio moro, la cui festa i meticci argentini di discendenza africana celebrano ancora oggi a Corrientes il 6 di gennaio; secondo altre narrazioni, il rosso è legato a una sua ipotetica militanza nelle file del Partido Autonomista (le cui uniformi e vessilli erano cremisi).
Non è semplice tracciare il corso della vicenda “umana” del Gauchito con una qualche attendibilità, distinguendo i fatti comprovati dall’epos.
Latitano le fonti scritte. S’ignora dove nacque né quando. Dovendosi affidare per lo più agli echi rimaneggiati della tradizione orale, si sprecano le varianti, fioccano i buchi neri, le incongruenze, ma, in definitiva, in che anno venne alla luce o in che luogo, a fianco di chi o contro chi lottò, sono dilemmi di lana caprina che appassionano più che altro gli studiosi del folklore correntino; chi crede in lui, bada al sodo.
Non hanno, infatti, bisogno di certificati d’autenticità le migliaia di pellegrini che convergono annualmente sulla sonnolenta cittadina di Mercedes per invocare i buoni auspici del Gauchito o per ricambiarlo di una qualche grazia ricevuta, offrendo ex voto al suo santuario. Il giorno della sua morte (l’anno è incerto), 8 gennaio, rappresenta il clou di tutte le celebrazioni: un flusso di 250-300.000 fedeli partecipa alla sua commemorazione. E visto che i santi popolari si onorano in modo genuino con musiche, danze (come il chamamé) e tiras d’asado, l’occasione è ghiotta per lasciarsi travolgere dall’atmosfera di festa e far bisbocce.
Alcune tappe relativamente assodate che scandiscono l’agiografia del Gauchito: fu arruolato e combatté in una delle tante guerre che insanguinarono l’Argentina nella seconda metà dell’ottocento (forse nelle fila della Triplice alleanza contro il Paraguay, forse s’impelagò nelle lotte intestine che dilaniarono il paese, contrapponendo la fazione dei federali a quella degli unionisti).
Disgustato dalla violenza gratuita e dai soprusi commessi dalla soldataglia contro la povera gente di cui fu testimone, disertò, dandosi alla macchia e convertendosi in un fuorilegge che rubava ai possidenti per spartire il frutto delle sue razzie tra i contadini – nonostante sembri esserci un unico episodio documentato che suffraga la dedizione del Gauchito alla causa dei diseredati (si schierò al fianco di alcuni campesinos che rivendicavano la restituzione di un appezzamento di terra che gli era stato confiscato da un signorotto locale). E dunque l’alone cavalleresco che ammanta le sue imprese appare più un ricamo postumo.
Ancora in vita, al Gauchito erano attribuite facoltà soprannaturali, come il potere d’ipnotizzare e l’invulnerabilità ai proiettili che gli derivava dall’indossare il payé (parola guaranì per amuleto) di Santa la Muerte.
Il credito che andava conquistandosi presso gli oppressi iniziò a turbare il sonno dei notabili che fiutarono nelle sue gesta rivoluzionarie una potenziale minaccia all’ordine costituito.
Lo arrestarono. Venne sgozzato durante il trasferimento verso la città di Goya, sede del tribunale in cui doveva essere giudicato, probabilmente per evitare le rogne di un processo che, se fosse stato celebrato, avrebbe avuto enorme risonanza “mediatica” nella regione e si sarebbe corso il rischio di tramutare un brigante in un martire; il verdetto di colpevolezza della corte, d’altra parte, era scontato. Omicidi extragiudiziali di questo tenore non erano inconsueti in quell’epoca violenta.
Il primo miracolo che gli si ascrive fu di guarire il figlio del suo carnefice, il sergente che comandava il drappello della scorta; se il sottufficiale avesse invocato il nome del Gauchito al capezzale del figlio agonizzante, d’incanto il giovane si sarebbe riavuto.
Il sergente, per gratitudine e per espiare il rimorso, fece collocare una rudimentale croce d’algarrobo nel luogo dove il Gauchito era stato giustiziato, in una prateria a circa 7 km da Mercedes.
Da questo embrione, il santuario si è strutturato nel tempo senza concedere alcunché all’opulenza, è cresciuto in modo disarmonico ma coerente al suo “concept” di sobrietà e freschezza, dando l’impressione al visitatore odierno d’aggirarsi in un’officina metalmeccanica della fede più che tra le austere navate di un tempio.
Particolarmente toccante è il capannone dallo scheletro di lamiere e tubi Innocenti alle cui pareti sono esposte le targhe automobilistiche di coloro che, scampati a un terribile incidente stradale, riconducono al favore del Gauchito la loro sopravvivenza; incastonate una accanto all’altra, come le tessere di un variegato mosaico in placche d’alluminio, compongono la pala di un rugginoso altare semi-pagano.
Nel novero dei santi popolari argentini la piazza d’onore spetta, per blasone, a Deolinda Correa, la “Difuntita Correa“. Questo link rimanda a un racconto verosimile sulla storia della Difuntita e sul suo santuario che scrissi durante la mia visita nel 2010. Invece questo link fa riferimento al sito ufficiale della Difunta, non aggiornatissimo, e questo ulteriore al sito della Confederazione Gaucha Argentina che organizza ogni anno, di solito agli inizi di aprile, la Cavalcata della Fede, una variopinta ed effervescente processione gaucha di due giorni, con pernottamento a Caucete, che si snoda dal Municipio di San Juan fino al santuario.
Secondo la versione più accreditata, intorno alla metà dell’800, il marito di Deolinda, Baudillo Bustos, fu reclutato a forza nei ranghi di una delle formazioni paramilitari che proliferavano nel clima d’anarchia di quegli anni turbolenti (s’indicavano con il termine “montoneros” le bande irregolari di mercenari e tagliagole che offrivano i propri servigi a un qualche “caudillo”). Abbandonata a se stessa e insidiata dai capricci di un Commissario di zona, attratto dalla sua avvenenza, Deolinda fuggì precipitosamente da San Juan con il figlio neonato in braccio, sperando di ricongiungersi al marito (non avrebbe potuto affidare il pargolo alla custodia di parenti o amici, temeva infatti che il suo aguzzino, accecato dalla brama, ne facesse un ostaggio per ricattarla).
Chiunque abbia impresse le asperità del deserto sanjuanino, può facilmente immaginare quale impresa disperata fosse addentrasi in quella desolazione per una donna che non aveva pianificato alcun itinerario, probabilmente mal equipaggiata, vista l’apprensione di raccattare su quello che aveva a portata di mano per allontanarsi in tutta fretta dalla città.
La raminga si smarrì e vagò senza meta fino a soccombere agli stenti. In un atto estremo d’amore materno, attaccò al proprio seno il neonato che, suggendo il latte, riuscì miracolosamente a sopravvivere fino all’arrivo di alcuni arrieros (i “cowboys” che scortavano le mandrie lungo le accidentate mulattiere della cordigliera andina).
Trassero in salvo il bebè e diedero cristiana sepoltura alla sventurata madre; sulla croce incisero con la lama del coltello “Difunta Correa” (poichè Deolinda recava una medaglietta al collo con il suo nome).
La fama della donna che aveva continuato ad allattare il proprio figlio già cadavere si diffuse rapidamente nei dintorni di San Juan ma soltanto alcuni anni dopo il suo culto si propagò al di là dei confini della provincia per radicarsi nel cuore della nazione, quando Don Pedro, un esperto arriero, si accampò con la sua mandria di 500 bovini alle falde del colle sulla cui sommità era inumata Deolinda.
Nottetempo si scatenò il finimondo, i capi di bestiame, atterriti, sbandarono. Fu allora che Don Pedro, in preda allo sconforto, invocò l’intercessione della Difunta Correa, avendo probabilmente udito l’eco dei prodigi che si attribuivano a quell’almita. Al sorgere dell’alba, ritrovò la mandria incolume, mentre pascolava nei pressi di una forra, che da allora prese il nome di Cuestas de las Vacas. Per riconoscenza Don Pedro fece edificare una cappella sopra la tomba della donna, il nucleo dell’attuale santuario.
Il santuario della Difuntita, che sorge presso il villaggio di Vallecito, 60 km a est di San Juan, si articola su due livelli: i fabbricati di servizio disseminati nella piana che costeggia la ruta 141 e l’acropoli.
Varcato il cancello d’ingresso, ci s’immette in una corte, pavimentata da lastre scistose e orlata da cappelle essenziali – alcune intonacate di calce, altre con la facciata in mattoni a vista o rivestite da placche metalliche commemorative – al cui interno sono stipati gli ex voto, meticolosamente catalogati, che i promesantes hanno donato alla Difuntita; ogni cappella ospita ex voto omogenei per genere (la cappella oberata d’uniformi, quella in cui sono accatastati modellini di camion, ecc.).
Nel 2011 è stato allestito il Museo della Fede, con l’obiettivo d’inserire in un percorso tematico circa 600 ex voto.
In una di queste cappelle, non più appariscente delle attigue, al punto che potrebbe benissimo essere bypassata da un pellegrino sbadato, sono custoditi i resti mortali di Deolinda Correa, riesumati e trasferiti abbasso dal sito della sua sepoltura primaria – cioè la cima del colle che domina Vallecito, laddove si verificò il fenomeno dell’allattamento postumo e Don Pedro Zapallo le consacrò un sacello.
I pellegrini, più che a visitare il sepolcro, “puntano” a guadagnare la vetta. Vi possono accedere salendo una scalinata, riparata da una precaria tettoia; alcuni salgono inginocchiati, dando prova di una fede inossidabile.
Tra le diverse categorie di ex voto, le più suggestive sono certamente le maquetas, i modellini di casa, che i pellegrini piazzano ovunque nel santuario e che s’inanellano anche lungo le pendici limacciose del colle, riproducendo nel loro caotico affastellarsi l’improvvisazione di una baraccopoli in miniatura. Il significato delle maquetas è duplice: ci si appella alla Difuntita sia per assicurarsi una protezione sulla casa di proprietà contro le calamità naturali (San Juan è zona sismica, l’80% della città fu raso al suolo dal terremoto del 1944), sia per riuscire a coronare il proprio sogno di possederne una, magari venendo sorteggiati alla lotteria dell’INV (Instituto National de la Vivienda), che assegna nuove e moderne unità abitative.
Mi sono sempre domandato come venisse gestita questa mole di ex voto dalla Fondazione Vallecito che amministra il santuario. Non ho più il trafiletto su cui lo lessi ma, vado a memoria, nel 2010 scoppiò uno scandalo in quanto si era scoperto che le maquetas, quando erano troppe o deperivano, essendo sovente assemblate con materiali facilmente deteriorabili come compensato o cartone, venivano interrate nella vallata senza particolari formalità.
Per quel che concerne i beni di maggior pregio (macchine, moto, oro, ecc.) dovrebbero essere venduti all’incanto sotto la supervisione della Provincia di San Juan (che ne è proprietaria per legge) e i proventi investiti nelle opere di miglioria tanto del santuario quanto delle infrastrutture ma, a causa dei debiti in cui versa la Fondazione, dal 2005 l’asta non viene più bandita. Avrebbe dovuto esserlo nel 2013 con gran risonanza di cassa sui principali quotidiani locali ma la magistratura bloccò la procedura. Il 2017 sembrava l’epilogo della grottesca telenovela. Di nuovo un buco nell’acqua. A metà 2018 la Fondazione ha annunciato, risolti finalmente i suoi guai giudiziari, che la data dell’asta sarebbe stata fissata di lì a poco. È la notizia più recente che ho scovato.
Tra i santi popolari argentini voglio ancora citare Nicolás Florencio Caputo (qui, estratta dal quotidiano El mundo, la sua storia integrale). Non perché abbia un particolare rilievo, anzi, ma perché costituisce un caso emblematico del modo fortuito in cui, da un evento non eccezionale (in questo caso un tragico episodio di nera, come se ne contano a decine in Sud America), possa svilupparsi il culto di un Santo Popolare per poi, attraverso il passaparola e una sorta d’empatia istintiva, attecchire tra la gente comune. Caputo era un tassista di 35 anni che il 5 maggio 1939, in viaggio tra San Juan e Vallecito, venne assassinato a sangue freddo dai suoi passeggeri che volevano rubargli l’auto, una fiammante Ford V8 targa 3-008.
I conducenti che percorrevano la Ruta 141 iniziarono a sostare nella località dove si era consumato l’omicidio, deponendo chi un mazzo di fiori, chi un cero, chi un qualche ammennicolo in ricordo dello sventurato tassista.
Con il trascorrere degli anni si consolidò l’abitudine di riverire Caputo come il santo patrono della Ruta 141 e, più in generale, protettore della viabilità. È quasi un obbligo al giorno d’oggi per uno “chofer” sanjuanino diretto a Vallecito rendergli omaggio, magari offrendogli un pezzo meccanico. Accumulo dopo accumulo, il santuario di Caputo appare come un’affascinante e raffazzonata stratificazione di copertoni, elementi di motore, manubri, tubi di scappamento, lamiere contorte, scheletri di vetture.
Ricetta degli gnocchi al tuco
Da Mercedes si dischiudono le porte di uno dei luoghi più incantati dell’Argentina, Colonia Pellegrini, il fulcro dell’oasi naturalistica dell’Iberà (se si vuole uscire dalle tappe standard dei tour, suggerisco senz’altro una puntata agli Esteros dell’Iberà, abbinandola al santuario del Gauchito, oppure una visita altrettanto entusiasmante al santuario della Difuntita Correa, facendo base a San Juan, rinomato centro vinicolo dove si producono corposi rossi da ceppi d’uva syrah e malbec).
Il nome della Colonia è stato scelto in ossequio all’ex Presidente della Repubblica Argentina, Carlos Pellegrini (mandato presidenziale: 6 agosto 1890 – 12 ottobre 1892, fonte Wikipedia).
Provenendo da nord, la pista verso la Colonia è sconnessa e percorribile solo da scafati 4×4; i transfer, irregolari, dipendono da agenzie private.
Da Mercedes, invece, lo sterrato che si dirama dalla RN 123 (rispetto alla mia visita ne sono stati asfaltati alcuni chilometri) è meno impervio e può essere affrontato a bordo di semplici utilitarie, almeno durante la stagione secca, sebbene coriacee schegge di pietrisco disseminate sulla superfice della carreggiata mettano a dura prova la resistenza dei pneumatici. Su questa rotta c’è un collegamento di autobus pubblici ma le partenze quotidiane non sono frequenti.
Si respira un’atmosfera da avamposto della civiltà nella Colonia. Un agglomerato di case che gravita su un diaframma di terra, sospeso in una dimensione liquida fuori dal tempo; un reticolato d’acciottolati e calli polverose; barocci, galline, cavalieri, indolenti capibara e sporadici fuoristrada si contendono il diritto di precedenza; un’anacronistica usina soddisfa il fabbisogno d’energia elettrica dei residenti; sulla linea dell’orizzonte, il cielo, quando è ovattato, si fonde alle fosche acque della laguna.
La vocazione della Colonia è turistica.
Mi sorprende come in America Latina la traiettoria di certe esistenze non s’incanali in un alveo predeterminato dalle convenzioni sociali e dalle circostanze, certe esistenze tendono piuttosto a riposizionarsi di continuo alla ricerca di un baricentro che è solo illusorio, poiché a sollecitarle è una vibrazione dell’anima, un bisogno intrinseco di mutare prospettiva, una sete di nuovi stimoli e sfide che non si appaga. Ogni obiettivo è già un passo indietro quando lo si conquista. E nell’affontare queste concitate metamorfosi, non ravviso mai la preoccupazione di perdere le proprie coordinate di riferimento, di doversi ogni volta reinventare un ruolo in contesti ignoti. Non c’è spazio per la paura di fallire o i rimpianti.
Doňa Mariana apparteneva alla categoria di questi esseri speciali, quasi eroici, sempre in fermento. Nonostante l’età avanzata, continuava a vagabondare da un capo all’altro del continente, irrequieta, forte della sua arte culinaria sopraffina che metteva al servizio di famiglie facoltose. Radicarsi in un luogo equivaleva, nella sua filosofia nomade, a spegnersi lentamente tra la bambagia di una gabbia claustrofobica.
Dalle pagine del suo ricettario – un monumentale tomo nel quale aveva annotato migliaia di preparazioni e che sfogliai con avidità – ci imbandì alcuni memorabili piatti, tra cui gli gnocchi al tuco.
Per i segreti del tuccu alla genovese vi rimando al fantastico blog della mia amica Francesca Vassallo “La Maggiorana Persa” https://www.lamaggioranapersa.com/tocco-detto-tuccu/.
Il tuco di Doňa Mariana era decisamente ispirato al suo archetipo ligure (eccetto che per i funghi porcini che non sono un ingrediente del tuco argentino e senza l’accortezza di una cottura avvolgente nella pentola di coccio).
Il termine “tuco” venne assimilato dal lunfardo porteňo, il dialetto di Buenos Aires, nella fucina de La Boca, il barrio della capitale dove, a partire dalla fine dell’ottocento, s’insediarono i migranti genovesi. Oltre al tuco molte pietanze tipicamente liguri si irradiarono dal quartiere degli Xeneizes per assurgere a patrimonio istitutivo della cucina nazionale. Penso, ad esempio, alla pasqualina (pascualina), che è la torta di verdure per anonomasia in Argentina.
Fuori dal contesto culturalmente abbastanza omogeneo della Boca, la ricetta del Tuco ha annacquato la sua identità, si è contaminata con altre ricette italiane importate da tradizioni regionali diverse, in parte i termini “tuco” e “sugo” si sono pure sovrapposti, al punto che oggi non è facile definire univocamente che cosa rappresenti il “tuco” nell’immaginario collettivo. Con sicumera ogni massaia affermerà che la ricetta del tuco che si tramanda da generazioni nella sua famiglia è la ricetta del tuco originale.
Possiamo a grandi linee individuare tre tipologie di sughi che possono essere catalogati sotto l’egida di “Tuco”.
Abbiamo ovviamente il Tuco più autentico, che spesso è anche detto con “estofado” (cotto con un grosso pezzo di carne vaccina); possiamo trovare un tuco affine al ragù alla bolognese (con carne trita, anche di pollo); e in ultimo un tuco vegetariano assai imbastardito, senza carne, senza “tuccu”. Sia per esperienza sia facendo delle indagini su internet tra le ricette dei cuochi amatoriali e non, emerge curiosamente che gli argentini associano con maggiore frequenza il Tuco a un sugo vegetariano.
Comun denominatore di tutte queste varianti sono: lunghe cotture e la presenza del pomodoro (sotto forma di pomodori freschi, pelati o passata, a volte corroborati da un cucchiaio di concentrato), verdure (di solito cipolla, carota, sedano e peperone rosso), una selezione d’erbe aromatiche (origano, alloro, timo, rosmarino, prezzemolo, basilico), spezie (pepe nero, paprika, chiodi di garofano, peperoncino essiccato). In genere è previsto un rinforzo di vino rosso (“vino tinto”) come coadiuvante di cottura.
Vi propongo la mia versione del tuco vegetariano argentino con gli gnocchi di patate.
Ingredienti per gli gnocchi (dosi per persona, suggerisco di calcolare 1 persona in più rispetto agli effettivi commensali):
- 100 gr di farina di grano tenero (per conferire una maggiore consistenza agli gnocchi, soprattutto durante la fase di cottura, si può combinare una parte di semola di grano duro, nella proporzione di 1 a 10);
- 300 gr di patate (servono patate farinose, “asciutte”, ricche di amido. Non quindi patate novelle, da preferire quelle a pasta bianca ma insomma non è il caso di fasciarsi la testa… a volte ci si deve affidare alla buona sorte quando si è di fretta, si sono programmati gli gnocchi per la serata e magari nell’ortofrutta vi è in vendita un’unica varietà di patate sfuse).
Non metto l’uovo, che ha la funzione di legante, se le patate, una volta passate, mi appaiono adeguatamente compatte.
Ingredienti per il tuco vegetariano (3/4 persone):
- 1 carota;
- 1 cipolla e 1 scalogno;
- 1 gambo di sedano;
- 1 bicchiere di vino rosso (ad esempio, del Syrah o Malbec);
- 1/2 peperone rosso medio, il pimiento morron (attenzione! Il sapore del peperone è invasivo e lascia sul palato un retrogusto persistente che può disturbare chi non è abituato. Nel caso meglio ometterlo);
- 1 conserva di pelati da 400 gr. (o l’equivalente in passata di pomodoro);
- 2-3 pomodori freschi (ad esempio si usano molto i perini, “tomate perita”);
- eventuale cucchiaio di concentrato;
- 2 foglie di alloro, una presa d’origano;
- 1 cucchiaino di paprika dolce e 1/2 di peperoncino essiccato;
- sale e pepe q.b.
Iniziamo – almeno due ore prima del pasto – a strutturare il sugo.
Laviamo e mondiamo le verdure (in particolare asportando il peduncolo, i semi e la membrana spugnosa interna del peperone; se la buccia del pomodoro non è gradita, eliminiamola dopo una veloce sbollentata); le tagliamo finemente.
Le rosoliamo 3/4 minuti a fiamma vivace in olio evo con due foglie d’alloro e il peperoncino essiccato. Sfumiamo con il vino rosso. Incorporiamo la salsa di pomodoro, la paprika e l’origano. Contrastiamo, se necessario, l’acidità del pomodoro con un cucchiaio di zucchero. Regoliamo di sale e pepe, quindi, mescolando, amalgamiamo il tutto.
Versiamo un bicchiere d’acqua, copriamo con coperchio e abbassiamo la fiamma al minimo, lasciando sobbollire il sugo un paio d’ore, allungandolo con ulteriore acqua quando necessario.
Mentre il sugo cuoce, cuociamo le patate, dopo averle pelate, in pentola a pressione (10 minuti dal momento in cui la valvola “fischia”). Se non si possiede la pentola a pressione, le possiamo far bollire in una pentola capiente, meglio con la buccia, sia per contenere – nei limiti del possibile – l’assorbimento di liquido sia per evitare che si sfaldino.
Una volta cotte, con il passapatate le trasformiamo in una purea filamentosa sulla spianatoia che avremo precedentemente infarinato.
Impastiamo patate e farina fino a ottenere un composto omogeneo. Lo ripartiamo in mattoncini che poi, rollandoli, sagomeremo a guisa di salsiciottti cilindrici di circa 1,5 cm di diametro.
Ricaviamo dai salsicitotti gli gnocchi, tagliando dei segmenti di circa 2 cm, a cui daremo la classica foggia a scanalature facendoli scorrere delicatamente sui rebbi della forchetta. Le scanalature (e l’incavo sulla facies opposta) sono strumentali a una cottura uniforme e a catturare il condimento.
Mettiamo l’acqua a bollire e la saliamo. Buttiamo gli gnocchi (pochi per volta, a ondate successive, per scongiurare il rischio che si attacchino gli uni agli altri) e non appena affiorano, li scoliamo con una ramina.
Li condiamo con il tuco di carne o vegetariano (che è opportuno aver fatto riposare almeno 15 minuti in modo che la salsa, intiepidendosi, possa sprigionare appieno il suo bouquet, altrimenti sovrastato dall’eccessivo calore) e spolveriamo con parmigiano reggiano.
Grazie per avere citato la mia ricetta! E’ un onore essere in un articolo del tuo bellissimo e interessante blog, mai banale o scontato!
Grazie a te Francesca. Ho citato la ricetta perchè è scritta e fotografata con l’estrema cura che caratterizza ogni aspetto del tuo blog