Uno dei risvolti più intriganti del viaggiare è il privilegio che ci è concesso d’evadere dai nostri stereotipi culinari per sperimentare altri modi d’interpretare la cucina.
Reputo perciò una forzatura mangiare italiano fuori dai confini patri.
Se provo ad analizzare il movente che mi ha indotto qualche rara volta in passato a frequentare un ristorante gestito da connazionali, è stato nell’ottica di svolgere quella che potrei definire un’informale indagine antropologica. Ho varcato la soglia di quei locali, cioè, con il proposito di testare se e come i sapori della nostra tradizione venivano rivisitati per adeguarli alle esigenze di una clientela educata ad altri sentori.
Pur non essendo un habitué dei ristoranti italiani o pseudo-tali all’estero, posso comunque testimoniare che le fettuccine Alfredo costituiscono una voce ricorrente sui loro menù, soprattutto nel continente americano.
Negli Stati Uniti le fettuccine Alfredo godono di sicuro prestigio e vengono considerate espressione della cucina italiana più genuina. A quelle latitudini un ristorante che si professi autenticamente “italiano” quasi non può non annoverarle tra le proprie proposte. Sarebbero dunque assai sorpresi questi buongustai d’oltreoceano nel constatare che le fettuccine Alfredo sono un primo piatto praticamente assente dalle tavole della nostra penisola.
Ma che mangiarino attendersi, ordinandole? Una sostanziosa porzione di fettuccine all’uovo, nella migliore delle ipotesi impastate a mano, accuratamente mantecate con burro e parmigiano. Poco più di una pastasciutta in bianco, insomma, sostenuta però da un robusto storytelling.
Una pietanza così frugale, tuttavia, mal si coniuga con la tendenza degli americani a pasticciare i piatti; ragione per cui, per compiacerne i gusti esuberanti, la ricetta base può essere rielaborata abbinandovi, a seconda della creatività dello chef, bocconcini di pollo, fiumi di panna, dadolate di prosciutto cotto, piselli, ecc.
Senza dubbio è il risultato di un paradosso che in certi paesi un piatto semisconosciuto sia assurto a simbolo della nostra cucina; sarebbe però altrettanto fuorviante relegare le fettuccine tra i prodotti abborracciati della ristorazione fusion italo-americana.
Studiando la genesi di questo piatto così bistrattato dai puristi, si scopre infatti che la sua origine è davvero italiana.
Se ne contendono la paternità due ristoranti di Roma: “Il Vero Alfredo” e “Alfredo alla Scrofa”, entrambi ubicati nel Rione Campo Marzio, a non grande distanza tra loro, al punto che può capitare che un turista straniero prenoti in uno e, tradito anche dal nome simile, si accomodi nell’altro.
Tra novembre e dicembre scorsi sentivo la necessità d’una parentesi che mi rigenerasse dalla paralisi emotiva causata dalla pandemia (e, più ancora, dalla martellante e ben poco deontologica narrazione del fenomeno operata dai mass media, improntata a un cinico rilancio di notizie contraddittorie e sempre più ansiogene). Quando si è svuotati, è spesso sufficiente staccare la spina per pochi giorni dalla routine quotidiana, mutare gli orizzonti a cui si è assuefatti, distrarre la mente dai pensieri più assillanti.
Dal momento che i luoghi della cultura permangono scandalosamente off-limits, decido di scendere a Roma con l’obiettivo d’assaggiare le fettuccine Alfredo. Compiendo un pellegrinaggio quasi mistico alle fonti del mito. In altre circostanze un proposito che sarebbe suonato ai limiti dell’assurdo, nelle attuali condizioni una scelta forse eccentrica ma coerente.
L’ultimo riscontro dell’esistenza delle fettuccine l’avevo avuto a febbraio mentre facevo la spesa in un supermercato della catena Walmart a Città del Messico. Su uno scaffale si allineavano numerosi barattoli di vetro, rabboccati con una poltiglia avorio non troppo invitante. L’etichetta certificava a caratteri cubitali “Crema Alfredo”. Credo d’aver maturato proprio in quel frangente la curiosità d’approfondire la storia di questo piatto controverso nel quale mi ero imbattuto in più occasioni durante i miei viaggi in terra d’America e che in altrettante occasioni mi aveva fatto storcere il naso.
Con il varo della classificazione delle regioni a fasce, ogni spostamento presume oculatezza e flessibilità. Qualsiasi progettualità è divenuta una chimera.
Il mio primo tentativo di partire alla volta della capitale è purtroppo frustrato da un cambio repentino di casacca. Attendo pazientemente che la curva epidemiologica si stabilizzi e non appena i colori lo consentono, quasi dall’oggi al domani, prendo un intercity.
Quando sosto a Roma, mi ritaglio immancabilmente un momento per visitare la statua di Pasquino, vicina a Piazza Navona. Non saprei dire se officio un mio rituale scaramantico o se mi affascinano i sottintesi anarcoidi evocati da questo mezzo busto, deteriorato dalle intemperie. Anche in questa circostanza, mentre cammino giù dal colle Oppio in direzione del centro, decido di deviare verso Piazza Navona.
Solo passeggiare per le vie di una Roma semideserta, tra le sue distese di ruderi e i tesori d’arte custoditi nelle chiese che continuano a essere aperte al culto, ritempra. Le restrizioni sono più tollerabili qui, dove puoi godere di una bellezza feroce, quasi sfacciata, attardandoti davanti alla tela di un Caravaggio o ammirando l’estasi della Beata Ludovica Alberoni, capolavoro tardo del Bernini, appena restaurato.
Il gruppo scultoreo di Pasquino risale all’epoca ellenistica e, con ogni probabilità, raffigura un Menelao che sostiene tra le braccia il corpo esanime di Patroclo. Le braccia di Menelao sono ora tronche, il corpo dello sventurato Patroclo perduto. Si suppone che adornasse l’attiguo stadio di Domiziano (le cui vestigia giacciono sotto la pavimentazione di piazza Navona – ma è lo stesso perimetro della piazza a ricalcare l’ovale dello Stadio).
Riscoperta e collocata nel crocicchio tra le attuali via di Pasquino e via di S. Pantaleo già durante il Rinascimento, la statua si trasformò in una sorta di tazebao alla cui scabra superficie di travertino anonimi cittadini affiggevano versi satirici, le “Pasquinate”, mettendo alla berlina i vizi e gli abusi dei potenti, senza risparmiare frecciate al pontefice.
L’origine del nome “Pasquino” è nebulosa. Le ipotesi si sprecano ma quelle più accreditate riconducono all’identità di un qualche bottegaio attivo nella zona, noto per la sua vena salace.
Certo è significativo che, nei secoli, nessun papa si sia azzardato a rimuovere questa fucina di punzecchiature dal suo piedistallo, si mormora per il timore di suscitare la reazione rabbiosa del popolino.
La consuetudine di fustigare pubblicamente il malcostume dei governanti si diffuse presto a Roma al punto che altre statue si affiancarono a Pasquino, divenendo a loro volta casse di risonanza dell’umore della piazza. Sono le c.d. statue parlanti: Marforio, il Facchino, Madama Lucrezia, il Babuino e quella dell’Abate Luigi, già due volte decapitata.
Ancora oggi si perpetua la tradizione d’appendere componimenti più o meno mordaci, più o meno ispirati, all’effige di Pasquino. Ovviamente, in tempi di bacheche social, è scemata qualunque carica eversiva.
Attraversata un’assolata Piazza Navona, imbocco il dedalo di vicoletti che conduce alla mia meta.
Con l’intenzione di confrontarne la resa, avevo preventivato di gustare le fettuccine Alfredo in ciascuno dei due ristoranti che si dichiarano depositari dell’eredità d’Alfredo di Lelio, l’ideatore del piatto. Mi dissuade, però, il costo di 19/20 euro che riporta il loro menù on line e che, per una pasta al burro “accomodata”, mi sembra francamente eccessivo, pur tenendo conto della location. Gli altri primi piatti della cucina romana che scorro sugli stessi menù hanno prezzi compresi in un range molto più contenuto.
Rimuginandoci con il senno di poi, la ritengo una cifra sproporzionata in rapporto al valore netto delle materie prime ma congrua se si considera il “pacchetto” complessivo che ci viene offerto. Il cameriere che manteca le fettuccine davanti ai nostri occhi con gesti carichi d’enfasi non è soltanto un virtuoso di quell’arte; appare piuttosto l’atto eucaristico di un sacerdote dedito a trasmetterci i fondamenti di un sapere antico. Almeno questa è l’impressione di pancia che ne ho ricavato, forse influenzato dal peso delle letture fatte. Altri avventori, meno propensi ai voli pindarici e più concentrati sulla sostanza, potrebbero concludere che, di spendere quella somma per un minuto d’esibizione, non ne vale la pena.
Essendo Roma inserita in fascia gialla, a mezzogiorno si può consumare il pasto seduti al tavolo. Ed è una fortuna. D’asporto, spogliate d’ogni teatralità, le fettuccine Alfredo non avrebbero lo stesso appeal. Sarebbe allora, e di gran lunga, preferibile una carbonara!
Chi scegliere per la prova tra “Il Vero Alfredo” e “Alfredo alla Scrofa”? Dovrò regolarmi d’istinto in quanto gli accenni storici presenti sulle rispettive pagine web non aiutano a capire qual è il ristorante più titolato a rappresentare la tradizione delle fettuccine.
L’epopea delle fettuccine risale al 1908 quando un ristoratore romano, Alfredo di Lelio, le improvvisa, cercando di preparare per la moglie Ines, prostrata dalle fatiche del parto, un piatto corroborante. Amalgama tra loro uova, farina di grano tenero e semola, quindi manteca il tutto generosamente, con burro e parmigiano reggiano,
Questo piatto così modesto e raffazzonato, complici la freschezza degli ingredienti e la vellutata mantecatura, diventa un vero e proprio cult. Nel 1920 atterrano a Roma per la luna di miele due star hollywoodiane: Douglas Fairbanks e la moglie Mary Pickford, che restano talmente conquistati dalle squisite fettuccine da omaggiare Alfredo con un cucchiaio e una forchetta d’oro massiccio. Sui manici è incisa la dedica: “To Alfredo the King of the noodles”.
Il mito delle fettuccine superbamente mantecate inizia a diffondersi sull’altra sponda dell’Atlantico, rimbalzato dai divi della Dolce Vita, dando avvio a un singolare processo di transfert: mentre si affermano oltreoceano come (presunto) piatto iconico della cucina italiana, vanno incontro a una progressiva rimozione nella madrepatria.
Il primo ristorante in cui m’imbatto è “Alfredo alla Scrofa”, sede dello storico ristorante fondato da Alfredo di Lelio nel 1914. Gli elettricisti stanno montando le luminarie natalizie. Non c’è nel quadro d’insieme un dettaglio accattivante che mi colpisca, inducendomi a entrare.
Procedo fino a Piazza Augusto Imperatore. Durante il fascismo l’area fu interessata dai radicali interventi di monumentalizzazione previsti dal piano regolatore del ’31 e coordinati dall’architetto Vittorio Morpurgo. Vennero innalzati tre imponenti edifici di concezione razionalista, i c.d. Palazzi dell’Inps, ad abbozzare la quinta di un foro contemporaneo di cui il mausoleo d’Augusto costituiva il baricentro. Sotto quei portici colonnati, nell’immediato dopoguerra, la dinastia degli Alfredo inaugurò la nuova attività dopo aver ceduto il ristorante di via della Scrofa.
L’ingresso principale de “Il Vero Alfredo”, prospiciente la piazza, ostenta un tocco d’esclusività con le porte automatizzate di cristallo: un biglietto da visita distaccato, che preannuncia oltre le cortine un ambiente formale e un servizio ingessato. Neppure la vetrina del Vero Alfredo mi entusiasma. A farmi decidere è il fatto che la Soprintendenza abbia posto un vincolo di tutela sul ristorante sia per il valore intrinseco dell’immobile e dei suoi arredi art déco sia per la sua rilevanza demoetnoantropologica (clicca per approfondimenti).
L’ampia ma opprimente Sala Dolce Vita, la più luminosa e raccolta Sala delle Celebrities: sono il prodotto di una stratificazione eclettica- ma non esattamente armonica – di stili e mode. Emana una certa obsoleta ampollosità dagli stucchi e dai marmi. Aleggiano ovunque soffuse suggestioni retrò, soffici echi di una mondanità antica. La mise en place è raffinata.
Come in tutti quei locali adibiti a ospitare moltissimi coperti quando sono vuoti, mi assale un groppo di desolazione metafisica, da sopravvissuto.
Scelgo un tavolo posizionato strategicamente vicino all’affaccio sul porticato per godere della luce naturale; alla destra, le pareti sono tappezzate da carrellate di foto di personaggi famosi che sono stati clienti del ristorante. L’esercizio di giocare al Who’s That nell’attesa che inizi il servizio è un richiamo irresistibile. Non sono fisionomista e ne indovino con il contagocce. Mi sembrano più macchiette, immortalate in un’affettata euforia a beneficio d’obiettivo o mentre, in modo grottesco, artigliano matasse di fettuccine come se dovessero sbranarle. Bianco e nero, colori sbiaditi, colori vividi: non è comunque difficile stilare una sommaria cronologia degli scatti.
Sebbene il mosaico di foto sia parte integrante del patrimonio culturale del ristorante, come i 58 libri-firme delle “celebrities”, rischia però di comunicare una vocazione turistica, e dunque poco attenta, della cucina a discapito dell’effettiva qualità.
È superfluo che scartabelli le voci del menù che mi porge il compito cameriere. La scelta è scontata. Un piatto di “maestosissime” fettuccine Alfredo, naturalmente!
Alcune fonti del post: