Sosterò 4 giorni consecutivi a Trapani. È il tempo che voglio ritagliarmi per sperimentare più proposte di pesto alla trapanese, alla ricerca della soluzione che meglio si confà al mio gusto.
Questa pandemia, imponendo restrizioni tassative e spesso schizofreniche ai movimenti su scala globale, ha influito sul mio modo di concepire gli spazi del viaggio e di scandirne i tempi. Mi sono creato come una sorta di comfort zone, forse un passaggio ineludibile quando subentra l’incertezza nelle nostre consuetudini. Spero che la prospettiva del viaggio torni a dilatarsi, a riconquistare la sua fluidità, la sua irruenza. Ma adesso è prematuro. Siamo ancora ostaggio di quarantene che potrebbero essere istituite con scarso preavviso, di procedure difformi d’ingresso e d’uscita. Il pensiero è necessariamente contratto, viaggiare si è convertito in un corollario di pazienti attese, il senso di libertà che lo connatura è relegato a calibrati spostamenti interiori.
Forse, prima, non avrei trascorso un soggiorno così lungo a Trapani. In questo frangente considero un’opportunità il fatto di poterci indugiare.
Il toponimo della città deriva dal greco Drepanon, falce, per via di una sua topografia arcuata che, agli occhi degli antichi, doveva configurare la sagoma di una roncola.
Il centro storico, il quartiere di San Pietro, coincide con il promontorio che si estende dalla stazione ferroviaria al mare. Vi attraccano i traghetti diretti alle isole e al continente.
Trapani ha pagato un tributo oneroso alla guerra. Era il porto da cui salpavano i convogli con gli approvvigionamenti per le truppe impegnate nell’Africa Settentrionale. Questa rilevanza logistica la trasformò in un obiettivo strategico. Non si contano i bombardamenti dell’aviazione alleata che, a ondate, ne rasero al suolo il centro storico. Oggi il quartiere San Pietro, con i suoi angusti vicoletti, conserva un suo disomogeneo fascino. Le cicatrici belliche sono ancora visibili. Si potrebbe dire in modo latente, nel senso che non si colgono vuoti nella trama degli edifici ma sono le ricostruzioni, pur ben integrate al tessuto urbano, a restituire un contesto vagamente artificioso.
A fine maggio molti ristoranti sono ancora chiusi e molti, dallo stato di desolazione in cui versano, dubito che riapriranno i battenti. L’impressione è che la pandemia abbia impattato duro, qui, e che servirà fatica per risollevarsi.
Ogni sera e, talvolta, a pranzo, testo la versione del pesto alla trapanese ammannita da uno tra i ristoranti che continuano a garantire il servizio. Assaggio creazioni più conservative, altre che flirtano con la contemporaneità.
In parallelo a queste verifiche, sfrutto ogni occasione di confronto per farmi raccontare “il suo pesto” da qualche trapanese. Considerata la tenacia che mi sprona, sembra che, invece di godermi una vacanza, debba assolvere a una missione. Può essere il barista dal quale faccio colazione, la vittima designata del terzo grado culinario; la titolare del panificio, che, imbustandomi qualche panino, cade ingenuamente nel tranello che le tendo. La circuisco con un pretesto, interrogandola sulla manifattura delle busiate che espone alla vendita (il formato di pasta elicoidale a cui si abbina, tipicamente, il pesto alla trapanese); carpita la sua confidenza, inizio a incalzarla sui segreti della ricetta. Posso altresì importunare un passeggero, mentre il bus s’inerpica per Erice: forse amerebbe dare una scorsa in santa pace alle ultime notizie di cronaca ma, per cortesia, contribuisce alla mia indagine.
Le ricette che raccolgo differiscono le une dalle altre. Non sensibilmente, giusto per qualche sfaccettatura, che può comunque incidere sulla resa finale. Parliamo di un piatto che appartiene alla tradizione e sarebbe pretestuoso fissare un canone di riferimento, un totem, che non valorizzi il portato dell’esperienza soggettiva, l’influenza delle memorie familiari. Nel campo della tradizione – intesa come un fertile continuum dove recitano solo attori non protagonisti – i dogmi non sono altro che zavorre.
Se sincere, tutte le eccezioni a una fittizia ricetta originale sono degne. Gli unici interventi di rilettura di un piatto della tradizione che, a mio giudizio, non si possono legittimare sono quei calcoli cinici che a volte diventano vere e proprie sofisticazioni. Penso, ad esempio, alle modifiche apportate per risparmiare sulla qualità degli ingredienti. Non le sottende un filo conduttore, come un’idea innovativa da sviluppare o un debito di coscienza con le proprie radici. Si tratta esclusivamente di business.
Di questo filone, i ristoranti a vocazione turistica costituiscono, spesso, le cartine di tornasole.
I morsi della fame mi assalgono mentre passeggio sul lungomare, in un tratto prospiciente il porto. Tripadvisor mi suggerisce un ristorante nei paraggi, con ottime referenze per quel che riguarda il pesto. Purtroppo è chiuso.
M’imbatto, esplorando la zona, in alcuni ristorantini con gazebo o tavoli all’aperto, piuttosto affollati. Non sembrerebbero semplici turisti che mangiano in attesa dell’orario d’imbarco, quindi il numero di clienti potrebbe essere a tutti gli effetti un metro della loro affidabilità.
M’indirizzo verso quello che più m’ispira, la Cozza Ubriaca, con la sua impronta mediterranea, i rustici tavoli dalle tovaglie a quadri ombreggiati da una vela. Controllo sul menù, correttamente esposto all’entrata, che abbiano in carta il pesto alla trapanese (fanno le busiate al pesto alla trapanese) e che il prezzo sia congruo rispetto alla media dei prezzi del centro cittadino. Mi accomodo. All’allampanato cameriere che prontamente mi assiste chiedo delucidazioni su come preparano il pesto. Mi elenca: pomodoro, aglio, mandorle, pepe e prezzemolo. Già all’udire pepe aggrotto la fronte. Il prezzemolo mi pare un’eresia.
Ma ne sei proprio sicuro? Il giovanotto appare titubante. Forse lo disorienta che un forestiero gli sollevi questioni di dottrina gastronomica. Va dallo chef per conferme, immagino ascrivendomi nel contempo al girone dei pedanti. Torna, rinfrancato. Lo chef spiega che con il prezzemolo il pesto risulta più buono. Cioè più buono che con il basilico? Data la mia diffidenza, il cameriere chiosa: Se vuole glieli condisce comunque con il basilico. No, li cucini come gli pare. E, da bere, un calice di vino bianco. Non ricordo che qualità di vino ordino. Mi si serve però un calice già riempito, presumendo un atto di fede da parte mia che non sono certo un intenditore di vini locali. Un difetto della nostra ristorazione è quello di non versare, in genere, il vino dalla bottiglia al cospetto del cliente in modo da certificarne l’origine.
Le busiate al pesto alla trapanese con inserti di prezzemolo sono un obbrobrio, tra gli accostamenti più incoerenti e grossolani che abbia mai assaggiato. Non era un pronostico difficile. Una foglia di basilico, ampia quanto un ventaglio, torreggia sulla pasta. Non capisco se lo chef voglia sbeffeggiarmi o se è un maldestro tentativo d’indurmi a credere che nel trito abbia sminuzzato anche del basilico. Valutata come mera guarnizione è grottesca. Al momento del conto, lo chef non sollecita riscontri, io mi tengo tutte le riserve. Da quell’istante, però, non perdo occasione per promuovere quel tale ristorante dove il pesto alla trapanese si confeziona con il prezzemolo. Le reazioni che registro, con un certo compiacimento, sono di censura.
Per completare la panoramica, visito alcune librerie. Vorrei acquistare qualche pubblicazione dedicata alla cucina locale, che la approcci però da un profilo storico-antropologico. Le nozioni sul tema che ricavo da internet sono poco circostanziate. S’ipotizza una derivazione del pesto dall’agghiata ligure (il pesto è chiamato in dialetto agghiata trapanisa), che i marinai della Repubblica, di ritorno dall’Oriente, avrebbero diffuso scalando nel porto siciliano. L’agghiata sarebbe stata rielaborata con gli ingredienti del territorio (ad esempio le mandorle al posto dei pinoli). Se supponiamo che questa contaminazione sia avvenuta in tempi antichi, ovviamente più tardo è l’impiego dei pomodori, che sono un prodotto del Nuovo Mondo.
Una gentile commessa si prodiga per accontentarmi ma i titoli del catalogo sono ricettari classici, che poco o nulla approfondiscono della storia del piatto. Avevo visto che è stato stampato tempo fa, da una casa editrice locale, un libro incentrato sul pesto. Non lo hanno. Però, se voglio, la ricetta del pesto alla trapanese me la può fornire lei. Lei con il supporto delle sue colleghe, che da dietro la cassa contrappuntano la chiacchierata di precisazione e commenti. Una distrazione, credo, per lenire la noia di una mattinata non particolarmente effervescente.
Ricetta del pesto alla trapanese
Metà pomodori freschi, metà pelati (400 gr. in totale per 4 persone). Questo ibrido, che condivido, restituisce un amalgama ben strutturato. La commessa mi specifica che i pomodori non li spella. Le sue colleghe dissentono nel merito. Neppure i ristoranti li spellano, suppongo per principi d’economicità. Nel mio caso, li sbollento e li privo della buccia e dei semini. Poi cerco di scolare l’acqua di vegetazione.
Cruciale è che i pomodori siano saporiti. Buonissimi (un’eccellenza della zona è costituita dal pomodoro seccagno Pizzutello di Paceco). Il pesto è una preparazione sostanzialmente a crudo con pochi, selezionati, ingredienti.
Con la forchetta schiacciamo pomodori e pelati in una ciotola (o solo pomodori freschi, se si preferisce). Li lasciamo riposare, irrorandoli d’olio extravergine.
Ci occupiamo nel mentre di trattare l’aglio. Da tradizione aglio, mandorle e basilico andrebbero lavorati nel mortaio. Come per il pesto alla genovese, oggigiorno il mortaio rimane un’eventualità ma non la norma. Il frullatore può servire all’abbisogna, con ovvie differenze nella texture. Consiglio di non frullarci i pomodori, men che meno pomodori e basilico insieme. Il basilico, con il suo bouquet spiccato, va aggiunto spezzettandolo a mano affinché non diventi prevalente. Si rischia, inoltre, di conferire alla salsa una pasticciata tonalità verde ramato.
L’aglio non può che essere il rosso di Nubia (a Genova lo vendono sui banchi del Mercato Orientale). Invece che pestarlo o frullarlo, lo taglio finissimo, al coltello. La quantità d’aglio dipende dai gusti personali. Sentire, si deve sentire. È l’anima del piatto. Una dose ragionevole corrisponde a uno spicchio per commensale. Se si teme che l’aglio possa disturbare l’ospite, meglio optare per un’altra pietanza che scendere al di sotto di una soglia minima (che potrebbe essere fissata a uno spicchio per 2 commensali).
Le mandorle (50 gr.) le frantumo usando un batticarne. Ritengo che una tostatura, prima d’aggregarle al composto, ne esalti il sapore. Una manciata la accantono per l’impiattamento.
Incorporo ai pomodori l’aglio, le mandorle e il basilico (8-10 foglioline). Regolo di sale. Guarnisco infine con mandorle e qualche fogliolina di basilico.
Le dosi riportate sono puramente indicative. Io vado rigorosamente a occhio e aggiusto le proporzioni, assaggiando.
Volendo, si possono innestare innumerevoli varianti su questa traccia essenziale, tutte lecite ma, dal mio punto di vista, ridondanti. La commessa, ad esempio, cosparge di pecorino (in alternativa ricotta salata/parmigiano). Personalmente propongo il formaggio in tavola in modo neutro, rimettendo la scelta alla discrezionalità dei commensali.
Quanto al pepe, ribadisco le mie perplessità. Alcuni tostano le mandorle con briciole di pane, una soluzione interessante. Altri guarniscono con melanzane fritte (in una sorta di connubio con la pasta alla Norma). Mi confermano le commesse che l’opzione patatine fritte è assai gettonata dai trapanesi. Quando leggevo sul menù dei ristoranti di questa stravaganza, francamente non mi capacitavo. La attribuivo più a qualche tendenza passeggera. Per quanto sembri essere, in effetti, una consuetudine, non mi pare un abbinamento armonico.