La pizza fritta che ricordavo era una sorta di panzerotto oversize, però affusolato. La sua sfoglia: un’armatura croccante e sottile.
Sbocconcellavo questa prelibatezza alcuni anni fa all’incrocio tra via dei Tribunali e via Atri, accompagnato in sottofondo dai gorgheggi di Topolino, all’anagrafe Antonio Borrelli, un pregiudicato agli arresti domiciliari che, fornito di microfono e amplificatori, si esibiva dal balcone della sua “prigione”, intrattenendo con un vasto repertorio di canzoni neo-melodiche i passanti.
Nel panaro, calato dal terrazzo del recluso convertitosi in chansonnier, il pubblico poteva testimoniare l’eventuale apprezzamento con un obolo.
La pizza fritta della signora Fernanda, viceversa, appare corpulenta, tozza, ubertosa nella farcia. Emana sentori veraci e profondi. Nulla concede alle sirene del mainstream, opponendo alle mode effimere che snaturano una solidità ancestrale, forse anacronistica.
La filosofia culinaria a cui si attiene Fernanda è dogmatica. Se ne infischia di mediare con l’evoluzione del gusto e dell’estetica, la sua pizza non cavalca in modo opportunistico enfasi salutiste né cerca di compiacere i palati sofisticati, compromettendosi; piuttosto si mostra sdegnosamente iconica, fieramente difforme, ostinatamente unta.
L’impressione che maturo, nell’osservare questa inossidabile ottuagenaria mentre sagoma le sue creazioni sulla spianatoia con gesti affettuosi e intrisi di sapienza, è che ogni volta offici i misteri di una religione domestica e lipidica di cui è depositaria. La sua ritualità è incorruttibile, sospesa fuori dal tempo.
L’intera vita professionale di Fernanda è stata votata a onorare la tradizione della pizza fritta.
Lei e sua madre sommano oltre cent’anni di pizze fritte ammannite in un basso dei quartieri spagnoli.
Il contesto, solo meno degradato, è lo stesso che De Sica immortala nelle sequenze dell’Oro di Napoli, sebbene l’esuberanza partenopea incarnata dalla Loren (fin troppo istrionica) contrasti con l’arguta concretezza di Fernanda.
Dirimpetto allo spaccio, prospetta l’uscio della sua abitazione; lo custodisce, affisso su uno stipite, un santino di Padre Pio.
Non si vendono altri manicaretti da Fernanda, non sono ammesse deroghe, come se solo concepire l’ipotesi d’ampliare la gamma delle proposte per intercettare una clientela più variegata equivalesse a macchiarsi d’eresia. D’altra parte la pizza fritta è la specialità in cui è versata e che, inserito il pilota automatico, foggia con una dedizione quasi mistica.
La pizza fritta nasce come prodotto da asporto destinato al consumo delle classi più umili. Sapido, nutriente, economico, ideale per tappare i buchi nello stomaco scavati dalla fame, quella autentica, che era lancinante nel dopoguerra. Si tramanda da quei giorni complicati la consuetudine del “a ogge a otto”, cioè mangi oggi e saldi tra 8 giorni, un pagamento dilazionato per venire incontro alle esigenze dei più bisognosi (ma questo escamotage valeva per tutto lo street food dei fritti a partire dai cuoppi).
A differenza della più conclamata e vezzosa pizza, la cui fama è cresciuta a dismisura fino a travalicare i confini urbani per annettere il mondo della gastronomia, la pizza fritta rimane intrinsecamente radicata alla realtà napoletana.
Gli ingredienti canonici che la caratterizzano sono senza fronzoli: farina, acqua, sale e, nel ripieno, i ciccioli o cicoli (residui della lavorazione della materia adiposa del maiale), la salsa di pomodoro e abbondante formaggio (ricotta, scamorza affumicata).
Il segreto della pizza di Fernanda credo risieda nella formula dell’impasto che per risultare di consistenza così straordinariamente fragrante, nonostante lo spessore, deve subire una lievitazione perfetta. L’influenza che esercitano le condizioni climatiche sui tempi di lievitazione è innegabile ma non ci sono prontuari che possano indirizzare nelle scelte. Solo l’esperienza sul campo può sancire le corrispondenze di questa ineffabile relazione.
I formati che offre Fernanda sono: piccolo e grande (rispettivamente a 2 e 3 euro), entrambi comunque impegnativi da metabolizzare.
Fernanda, per testare la temperatura dell’olio di frittura, getta empiricamente nel calderone un grumo d’impasto.
Al suo posto io avrei usato l’apposito termometro o, in alternativa, dovendomi affidare all’istinto, avrei giudicato dal frenetico sfrigolare che l’olio avesse già raggiunto il giusto stadio per immergervi la pizza.
Lei al contrario reputa che sia un passaggio ancora prematuro. Ovviamente ha ragione ad attendere altri 30 secondi. Ecco la quintessenza della sua cucina, che è poi la stessa identità che sottende le cucine dei nostri anziani. Valutazioni a colpo d’occhio. Intuizione del momento. Una cucina emotiva, eseguita con le dita e l’anima. Inimitabile.