Talvolta ti sorprende persino il feedback che ricevi dalle persone che ti vivono accanto. La realtà che ci circonda è complessa, così sfuggente e contraddittoria, che si riesce a stento a sintonizzarsi con l’umore del proprio ambiente.
Riconducendo questa considerazione generica al tema del viaggio, ne deriva che non è facile tastare il polso di un paese che visitiamo una, o anche più volte, nel corso degli anni. Per quanto ci si documenti, la nostra testimonianza sarà del tutto soggettiva, effimera, espressione di un dato momento storico, magari fuorviata dal giudizio di chi abbiamo incontrato durante il nostro itinerario, che è sempre l’opinione di un singolo individuo o di un gruppo d’individui e non coincide mai con il comune sentire di un popolo.
Dobbiamo essere consapevoli di questi limiti, dobbiamo mettere in conto che potremmo aver frainteso o mal interpretato una situazione, se vogliamo scrivere un resoconto obiettivo. E per certo occorre rafforzare questa cautela quando ci approcciamo a una cultura che si situa agli antipodi dei modelli che ci sono più familiari.
Il Giappone appartiene a quelle civiltà enigmatiche che affascinano e destabilizzano chiunque. Che preservi stili di vita integri e massificati, che si tramandano senza eccessivi scossoni da tempi immemori, scalfiti solo superficialmente dal processo di globalizzazione, è sotto gli occhi di ogni turista curioso ma i codici sociali che lo regolano, il suo dna più autentico sono ambiti ardui da penetrare per una mentalità occidentale.
Il Giappone, anche in cucina, rivela una coerente, solida identità, che è poi solo una declinazione di quell’attitudine meticolosa che impronta ogni aspetto della vita dei suoi abitanti: la ricerca esasperata della perfezione del gesto, l’equilibrio e l’armonia della composizione, il sottrarre piuttosto che il volgare eccesso, la puntigliosa organizzazione.
Un cuoco giapponese si occupa di saziare la pancia dei suoi commensali mentre coltiva il benessere di tutti i loro organi di senso, appagandoli uno a uno senza mai strafare.
Prima d’illustrarvi la ricetta del Tamagoyaki (un rotolo d’omelette, profumato da inserti di mirin e salsa di soia, con cui sapremo stupire i nostri invitati), voglio proporvi una fotografia emotiva che ho scattato alla pelle del paese, una carrellata d’eccentricità che non ha alcuna pretesa d’analisi sociologica, solo l’intenzione d’esemplificare perché il Giappone è diverso.
Washlet. È semplicemente sbalorditivo come i giapponesi si siano applicati per rendere lezioso uno dei rituali fisiologici più prosaici del nostro quotidiano. Washlet è la fusione di due termini inglesi, wash (lavare) e toilet. Si tratta di un sofisticato w.c. che sposa in sé molteplici funzioni. I diritti sul marchio sono detenuti dall’azienda nipponica Toto Ltd (sebbene l’intuizione d’integrare in un unico elemento water e bidet sia svizzera e risalga alla metà degli anni ’50).
Alla destra del vaso sanitario è posizionato un bracciolo che serve da consolle di comando. Smanettando con una pletora di pulsanti, corredati da goffi schizzi esplicativi, potremo regalarci la quintessenza del comfort. Secondo la fascia di prezzo in cui si collocano, i modelli di Washlet vengono forniti più o meno accessoriati. Gli optional di base sono: riscaldamento della tavoletta, doccette di risciacquo a varie intensità e angolazioni irrorate da un ugello retrattile, fon per asciugare le parti intime, il c.d. otohime, la “principessa del suono”, un dispositivo acustico che riproduce l’effetto gorgheggiante dell’acqua che scorre, volto a dissimulare rumori imbarazzanti.
Non bisogna credere che questo prodigio high tech sia un prodotto di nicchia dai costi esorbitanti. Circa il 70% dei giapponesi ne possiede uno nella propria residenza. La maggioranza dei bagni pubblici ne è equipaggiata. Superfluo aggiungere che i bagni pubblici, disseminati capillarmente nei centri urbani e di solito gratuiti, sembrano quasi asettici da tanto che sono lindi. Scordiamoci dunque, per tutta la durata della nostra trasferta nel Sol Levante, vespasiani fetidi, muri imbrattati, dispenser privi di sapone liquido, apparecchiature asciugamani ingrippate, custodi truci e indolenti, vandalismi assortiti. Visitando il tempio Tenryuji di Kyoto sono incappato in una toilette nella quale, per tenere separati gli spazi impuri, cioè quelli di pertinenza del bagno, dal pavimento su cui si deambulava, dovevi addirittura toglierti le scarpe e calzare appositi zoccoli di legno prima d’accedere alla zona degli orinatoi.
Semaforo rosso. Osservando un compito manipolo di pedoni giapponesi che staziona sul ciglio della strada in attesa che s’illumini il via libera del semaforo, viene naturale sintetizzare questa deferenza quasi marziale verso l’ordine costituito con il termine “disciplina”. Ferrea, inderogabile disciplina. Una disciplina che appare spesso più un cieco atto di sottomissione verso un dogma trascendente che non un comportamento maturo; un’abnegazione, talvolta, paradossale, che scade in una sorta di grottesca, passiva obbedienza, obbedire per obbedire, come se l’obbedienza fosse una boa nel mare del caos, rigettando ogni elasticità, ogni valutazione critica di merito, senza contestualizzare. Pur sforzandomi di essere non giudicante, non posso che sogghignare quando, in prossimità dell’attraversamento di una stradina defilata, carreggiata rettilinea sgombra a destra e a manca, il cittadino giapponese medio resta ostinatamente ancorato al marciapiede finché non scatta il disco verde.
Si può avere una controprova di questo stesso ossessivo rigore se ci imbattiamo in uno di quei serpentoni umani che si snodano all’esterno di qualche megastore – circostanza abbastanza frequente visto che i giapponesi urbanizzati sembrano consumare parte della loro esistenza ammassati davanti a ristoranti, grandi magazzini o empori dei brand internazionali.
Ad Akihabara, la città elettronica, nei giorni in cui qualche negozio inaugura un nuovo, avveniristico arcade, si formano fin dal primo mattino file di trepidanti otaku, ragazzi piuttosto svalvolati che sono dediti in modo maniacale al culto dei manga, degli anime e dei videogiochi, alimentando una vera e propria subcultura urbana.
Ciascuno ha scaricato da internet il coupon che lo autorizza ad accedere al paradiso dei suoi sogni più reconditi, dopo le 10.00 però, quando i cancelli del paradiso si spalancheranno. Con il sole o sferzati dalla pioggia, questi fanatici non fanno una piega. Sono irreggimentati sotto i loro paracqua, spalla a spalla, nessuno sgarra, tentando di prevaricare, di conquistarsi una posizione più riparata dalle intemperie a discapito del vicino. Se la fila, allungandosi, ingombra un passo, ecco che in modo spontaneo si spezza in due tronconi e i ragazzi s’inchiodano al di qua e al di là del passo per non ostacolare la circolazione. E la fenditura che si crea nella coda appare talmente tranciata di netto, perpendicolare, che sembra squadrata a tavolino.
Sampuru. E’ un imbastardimento della parola inglese “sample”, campione, e si riferisce alle riproduzioni in cera di vivande che, soprattutto a partire dal dopoguerra, hanno iniziato a proliferare nelle vetrine dei ristoranti per promuoverne la cucina e ammaliare con la loro accuratezza i clienti, invogliandoli a oltrepassare il noren, la tradizionale tenda divisoria, l’interfaccia di tessuto che si frappone tra l’invadenza del mondo di fuori e l’intimità del locale. Il fatto che non di rado la struttura del ristorante si contragga verso l’esterno come un guscio per proteggere la privacy dei suoi ospiti è un indizio di quanto sia sacro il riserbo per i giapponesi.
I sampuru attuali sono fabbricati in resina. Assolutamente minuziosi, autentici pezzi d’arte. Nei confronti di un menù cartaceo affisso in bacheca, presentano il vantaggio dell’immediatezza. Al primo sguardo l’avventore capisce che cosa può offrirgli quel determinato posto e, dal momento che i prezzi sono in bella vista, la cifra che andrà a spendere (prezzi abbordabilissimi, a meno che uno non s’infili in un qualche ristorante d’alto bordo o s’abbuffi di sushi). Poiché la maggioranza dei ristoranti giapponesi sono tematici, cioè specializzati solo in un piatto o in una categoria omogenea di pietanze, avremo sovente esposti sampuru affini. Un bistrot di Ramen, ad esempio, si doterà di una collezione di sampuru a forma di ciotola di Ramen, che rappresenti le varietà di zuppe che lo chef è in grado di ammannire; un bistrot di Tonkatsu si procurerà sampuru di cotolette di maiale impanate e fritte, di crocchette fritte (korrokè), d’ebi (gamberetti) e verdure in Tempura, di riso condito da una lepegosa salsa al curry.
La mecca in cui recarsi per acquistare un sampuru – possono divenire souvenir sfiziosi – è Kappabashi, nel quartiere di Asakusa, una via dal vago sapore vintage, le cui numerosissime botteghe smerciano articoli per la casa e utensili da cucina. Le quotazioni di un sampuru dignitoso vanno da un minimo di 70/80 euro a importi decisamente onerosi (fino a mille e rotti euro per le realizzazioni più raffinate su commissione).
Formalità. I giapponesi si nutrono di formalità, sciorinano formalità, soprattutto con chi non conoscono. A profusione. Non sono espansivi né empatici ma tanto ossequiosi. Non è semplice per uno straniero circoscrivere con chiarezza il confine tra un atteggiamento genuino, effettivamente cordiale, e un contegno costruito, una gentilezza artificiosa di belle maniere che gli è stata inculcata fin dalla culla ma che può non rispecchiare il loro stato d’animo. Di certo rientrano nel campo delle manfrine i convenevoli che ci dobbiamo sciroppare nei negozi. Non appena ne superiamo la soglia, veniamo bersagliati da una salva di stucchevoli salamelecchi di benvenuto, contemporaneamente snocciolati anche da più commessi, se in quel frangente sono inoccupati.
Queste manifestazioni d’affettato entusiasmo ci sono indirizzate sfoggiando una vocina miagolante, quasi in falsetto, che forse si accorda alla sensibilità nipponica ma che risulta stridente per l’udito di un occidentale. Di nuovo, alla cassa, nel momento di pagare, ci travolge l’ennesimo flusso inconsistente di smancerie e frasi fatte. La cassiera, infatti, ribadisce il totale della spesa, strilla al mondo la cifra che le abbiamo consegnato, inanella giri di parole sull’esatto ammontare del resto che ci porge, sorridendo a 32 denti. All’uscita, poi, veniamo congedati con la stessa pantomima di garruli saluti che ci era stata riservata all’ingresso.
Come premesso, registro una tendenza diffusa – il rispetto di un rigido protocollo nel relazionarsi con gli estranei – ma che nella pratica si presta a infinite eccezioni, anche di segno opposto. Bisogna tenerne conto, evitando di generalizzare, per non scadere in una rappresentazione macchiettistica dei giapponesi. Con le nuove generazioni i contatti sono molto più easy, le distanze culturali meno castranti. Ho incrociato viaggiatori giapponesi che nelle loro capacità d’adattamento e assimilazione erano straordinariamente ricettivi.
Sesso. Riferimenti più o meno espliciti alla sfera della sessualità traboccano dal ventre delle metropoli nipponiche. Ci sono i distretti a luci rosse (i più celebri Tobita Shinchi a Osaka, Kabukichō a Tokyo), dove, tra dedali angusti, convivono porta a porta infimi nightclub e izakaya (baretti dall’atmosfera molto raccolta in cui si danno appuntamento i colletti bianchi per un cicchetto di sakè nel dopolavoro), torbidi soapland e fragorose sale del pachinko (un gioco d’azzardo insulso che manda però in solluchero i giapponesi, una sorta di flipper verticale, la cui finalità principale è imbucare una biglia d’acciaio al termine di una tortuosa caduta).
I soapland sono quanto di più analogo alla nostra accezione di bordello si possa rintracciare nell’arcipelago. Alla resa dei conti sono postriboli borderline.
A differenza dei tradizionali hostess bar/cabaret di striptease, nei quali le prestazioni sessuali vengono dispensate come corollario clandestino o tra le pieghe di un intrattenimento che non le contempla, i soapland non celano la loro vocazione di centri del piacere. Nei soapland non si assiste a show lascivi con la speranza di strappare un extra, si entra proprio per ricevere un trattamento sessuale in piena regola. Vi è erogata un’ampia gamma di servizi, con totale trasparenza, in base alle voci di un tariffario; i corrispettivi lievitano a seconda della durata, della tipologia del servizio richiesto, dell’ora in cui se ne fruisce, dell’avvenenza della escort selezionata.
Questa sfrontatezza nel pubblicizzare attività che quasi ovunque sarebbero disincentivate o proibite come lesive del comune senso del pudore, è giustificata dalla lasca legge nipponica del ’56 in materia di prostituzione. E da una certa tolleranza sociale. Il meretricio è ammissibile a meno che non preveda il coito. Esclusa quindi la penetrazione vaginale, ogni altra pratica, dalla masturbazione alla fellatio, può essere somministrata dalle sex worker del soapland e retribuita senza incorrere in uno specifico reato. La costante è che all’inizio di ogni sessione il cliente viene sottoposto a un lavacro per ragioni igieniche e per rosicchiare minuti dalla tariffa forfettaria, diminuendo così il tempo netto della prestazione sessuale (da qui la denominazione “soapland”, che potremmo tradurre in modo eufemistico come “luogo dove si viene insaponati”).
Se ufficialmente nei soapland non si esercita la prostituzione illegale, in camera caritatis è prassi che si consumino rapporti completi. Si tratta però di un’iniziativa privata, una negoziazione supplementare che si svolge vise a vise tra squillo e cliente, al riparo da sguardi indiscreti, non inclusa nel pacchetto dei servizi acquistato alla reception del bordello, bordello che si mantiene così nei binari del lecito.
Il mercato del sesso fino ad anni recenti si rivolgeva in modo (quasi) esclusivo ai maschi nipponici – e la maggior parte dei soapland, soprattutto i più elitari che impiegano lavoratrici di “pura razza” giapponese, continua a essere off limits per gli stranieri; motore di questa preclusione è una sorta d’atavica quanto diffusa xenofobia, connaturata alla mentalità di molti, che travalica il ristretto perimetro della prostituzione per manifestarsi in tutte le circostanze in cui autoctoni e non giapponesi devono relazionarsi e che può tradursi in diffidenza, ritrosia e, nei casi più gravi, in sgradevoli episodi di discriminazione. Oggigiorno, tuttavia, la crisi globale, che ha colpito duro anche l’economia giapponese, ha allentato le maglie del pregiudizio, pecunia non olet, e i turisti che si aggirano per un distretto a luci rosse vengono importunati da aggressivi quanto mastodontici “buttadentro” di colore che reclamizzano le virtù del bordello che li sovvenziona.
Che un quartiere votato al divertimento più sfrenato, “mizu shobai” in giapponese, commercio dell’acqua (forse riferito all’abbondante consumo d’alcool o forse è un memento mori, un invito a godere dell’attimo senza troppe titubanze, tenendo conto della transitorietà della vita che scorre via come acqua), sia pervaso da un alone di trasgressività rientra nell’ordine naturale delle cose.
Destano più scalpore le ricorrenti allusioni sessuali che costellano i luoghi dello svago, dove passeggiano le famiglie e si ritrovano i ragazzini. Spesso con sguardi trasognanti rivolti all’insù, rapiti dai banner che tappezzano le facciate dei grattacieli, dai quali ammiccano le discinte protagoniste degli anime e dei manga, con minigonne plissettate e svolazzanti, occhioni languidi, improbabili cofanate e sorrisetti ambigui. È un erotismo pruriginoso di corpi acerbi, che provoca la fervida fantasia e gli ormoni in subbuglio dei teenager, lasciando intravedere, per ritrarsi all’ultimo istante senza svelare.
Sono in fondo stimoli sessuali a basso voltaggio gli input che prorompono dai cartelloni pubblicitari, tentazioni maliziose e blande, un’iconografia che si è ormai radicata nella mitologia pop giapponese, come i maid caffè o i purikura. Se, tuttavia, ci si addentra in uno degli sterminati, labirintici spacci di fumetti, dvd d’animazione, videogiochi e action figure in pvc (e occorre farlo, è parte dell’esperienza, soprattutto a Tokyo), si viene travolti da un’esibizione ostentata di nudità femminile che non ha nulla di patinato, un campionario di sconcezze e perversioni che può disturbare la vista dei più conservatori ma che non scalfisce l’aplomb degli habitué nipponici, assolutamente a loro agio con questi eccessi.
Spaziamo da statuette d’esplosive fanciulle in succinti bikini o topless, talmente procaci però da risultare trash più che conturbanti, ad ammennicoli che denotano una matrice pornografica molto spinta (ad esempio modellini di ragazze in pose sadomaso, poster plastificati – gettonatissimi quelli a tema lesbo o con scene d’autoerotismo – figurine adesive, eroge, dvd hentai, fumetti, ecc).
La disinvoltura dei giapponesi nei riguardi dell’universo che gravita intorno all’eros si riscontra pure nell’allestimento distensivo con cui i sexy shop si promuovono presso la propria clientela, senza censure, spesso più simili a sofisticate boutique, ripuliti d’ogni sovrastruttura equivoca, per nulla sordidi: piani e piani con scaffali luminosi ricolmi di sex toys, creme e gel lubrificanti, infilate di travestimenti, monitor che ti bombardano con frame di film “espressionisti” a luci rosse come se trasmettessero il trailer dei blockbuster prossimamente in uscita nelle sale.
Che i prodotti a contenuto sessuale non suscitino alcuna vergogna o disagio in chi li compra né siano fonte di particolare riprovazione sociale, lo certificano i convenience store (Konbini), approntando una sezione di riviste spiccatamente hard-core, accanto a innocenti rotocalchi di moda e tabloid, che l’avventore può consultare per valutarne l’acquisto in totale relax; proviamo solo a immaginare il calvario psicologico, che dose da cavallo di circospezione si richiederebbe da noi a un consumatore di pornografia, quale groviglio di drappeggi verrebbe imbastito per segregare la zona adibita alla vendita del materiale più osé dal resto della merce!
I Konbini sono un’istituzione in Giappone, anzi: sono un compendio di cultura giapponese stratificato in pochi metri quadri. Si tratta di minimarket multi tasking e omologati (cioè il cliente sa esattamente che cosa può trovarvi), aperti 24 ore su 24, che offrono: servizi d’utilità o ludici, come la possibilità di pagare le utenze o riservare un biglietto per uno dei quattro tornei annuali di Sumo; una cernita d’accessori d’uso quotidiano di cui si potrebbe improvvisamente avere necessità (pile, dentifrici, shampoo, ombrelli, ecc.); un fast food con cibi fritti piuttosto stantii, uova alla soia, hotdog, baozi, gelati e bevande calde (non è certo la ristorazione il pezzo forte della casa); una variegata selezione d’alimenti precotti, ideali per uno spuntino in pausa pranzo o per imbandire una cena senza troppi fronzoli – sia da asporto oppure da riscaldare nel microonde e degustarli nella food court che i Konbini più attrezzati mettono a disposizione. Non mancano, ovviamente, reparti per la spesa di tutti giorni, frutta, verdura, surgelati, prodotti da forno, ma l’assortimento è decisamente più limitato rispetto ai supermarket classici. Le principali catene sono: 7-Eeven, Lawson e Family Mart; Lawson 100 è il brand low cost della Lawson.
Si contano oltre 56.000 Konbini nell’arcipelago, il che significa che anche se ci stiamo aggirando per le vie del più desolato quartiere di una grande città, è probabile che si possa individuare l’insegna di un Konbini allungando appena il collo. Gli addetti sono di solito studenti con contratto a tempo determinato. I prezzi risultano leggermente più salati della media, è lo scotto da pagare per potersi procurare, se sorge un languore, generi di primo conforto a notte fonda quando tutti gli altri esercizi sono chiusi. Personalmente trovo eccellente il caffè espresso che si può reperire da Lawson, chicchi d’arabica macinati sul momento, il cui costo, di poco superiore a un euro, è manna stante le indecenti quotazioni dell’espresso nei bar o a un tavolino dell’onnipresente Starbucks.
Fanno da contrappunto a questa sbandierata emancipazione sessuale i numeri, le fredde statistiche, da cui si evince che le coppie giapponesi, giovani e mature, si dedicano assai sporadicamente all’amore (i ritmi di vita frenetici, la pornografia digitale e la facilità di poter trasgredire fuori dai confini della coppia possono essere concause di questa deprimente tendenza). E di come gli adolescenti fatichino a intrecciare relazioni sessuali soddisfacenti, tagliando il traguardo dei trenta’anni ancora vergini (circa il 25% dei giovani o più, a seconda delle indagini). Al punto che è stata coniata nel 2006 dalla giornalista Maki Fukasawa la definizione di “uomini erbivori” per raggruppare in una categoria i giovani giapponesi, drogati dalla rete, del tutto indifferenti agli impulsi della carne. Forse più che di un’emancipazione sessuale a tutto tondo, sarebbe più opportuno parlare di un’emancipazione rispetto alla sessualità virtuale.
Natura. La simbiosi tra uomo e natura è il cardine della religione degli avi, lo shintoismo. I Kami, gli dei, dimorano nel tronco d’alberi secolari (spesso la loro presenza è rivelata da una massiccia corda intrecciata di canapa o paglia che avvolge la circonferenza del fusto, Shimenawa, dalla quale possono pendere dei pezzi di carta, spesso zigzaganti, detti Shide), abitano l’alveo dei fiumi, s’identificano in una placida sorgente, popolano la cresta delle montagne (sulla montagna per antonomasia, simbolo del Giappone, il Monte Fuji, risiede la divinità Konohanasakuya-hime; ascendere il Fuji è un rituale da compiersi se si vuole entrare in comunione con Amaterasu, la dea del Sole).
Non esiste un elenco esaustivo degli dei shinto, non sarebbe possibile compilarlo con cognizione di causa perché, se ogni roccia o ogni albero può ospitare un Kami (e al rango di Kami possono altresì assurgere personaggi storici, animali, ecc.), i Kami sono potenzialmente infiniti. D’altra parte il fedele shintoista non è propenso a invischiarsi in sterili dispute teologiche, onora il proprio Kami d’elezione con lo stesso afflato che riserva a tutti i Kami con i quali ha occasione di relazionarsi durante il corso dell’esistenza, ad esempio rendendo visita al tempio di un’altra circoscrizione.
Rispettando la sacralità della natura, i giapponesi si riconnettono all’essenza stessa del loro io più profondo, alle viscere della terra da cui traggono linfa vitale, il Giappone, l’epicentro del mondo.
I giapponesi adorano cesellare le chiome degli alberi, potare gli arbusti per conferirgli una forma coerente. Basta visitare i giardini zen di Kyoto oppure sbirciare nel cortile delle abitazioni private: si tocca l’eccellenza dell’arte topiaria nella sintesi tra la resa estetica (sempre all’insegna dell’asimmetria) e il respiro emotivo che la sottende.
Nonostante tanta predisposizione e sensibilità nella difesa del verde, le megalopoli nipponiche – e ancor di più le cittadine di provincia – appaiono come squallidi agglomerati di calcestruzzo, un’accozzaglia di brutti loculi, privi di un qualunque modello di pianificazione, che si affastellano gli uni sugli altri, lascito della speculazione edilizia post bellica, più orientata a ricostruire in fretta e furia che a ricostruire razionalmente, integrando spazi verdi e ricreativi nel tessuto urbano.
Se i templi shintoisti (Jingu) extraurbani dialogano intimamente con l’ambiente che li circonda, quelli edificati in contesto cittadino sono deturpati da colate e colate di cemento.
Perciò si tende a piantumare le aree del santuario, nel tentativo di creare la parvenza di un habitat incontaminato, consono alle esigenze della divinità. Emblema di questo stridente contrasto tra amore per la natura e oltraggio alla natura, è la città di Kyoto con il suo vasto patrimonio culturale di templi che si estende ad anello ai margini del centro abitato, abbracciato da una folta vegetazione, e il nucleo della metropoli moderna, orrendo.
Mascherina. Dopo la psicosi scatenata dall’epidemia di Sars tra il 2002 e il 2003, in Estremo Oriente è divenuta una consuetudine, ancor più consolidata di prima, quella d’indossare le apposite mascherine filtranti sulla bocca e le mucose. Il Giappone non fa eccezione alla regola. La gente le veste con nonchalance, come un copricapo o una sciarpa, magari in abbinamento al kimono. La funzione della mascherina è duplice, tanto preventiva (protegge contro i batteri e lo smog) quanto per evitare che una persona acciaccata possa contagiare chi incontra.
Costituirebbe un’ingiustificabile infrazione dell’etichetta, infatti, non preoccuparsi della salute altrui, spargendo germi. Se si pone attenzione, nessun giapponese si soffia il naso in luoghi pubblici o sui mezzi di trasporto. Soffiarsi il naso è sintomo di maleducazione, anzi: il fazzoletto è proprio bandito. Si sopperisce con la mascherina o si tira su.
Maneki Neko. Dulcis in fundo il mitico gattino (neko, gatto) porta fortuna di razza bobtail (della varietà Mi-Ke, caratterizzata dal manto di tre colori: rosso, bianco e nero), con la zampina sollevata e basculante, che fa capolino dalle vetrine dei negozi sino-giapponesi e invita i passanti ad accostarsi e a varcare la soglia (contrariamente alle apparenze, il cenno del gattino non è di saluto; maneki vuol dire “chiamare a sé”, quindi Maneki Neko è il “gatto che chiama“).
Non si conosce un evento storico che ci illumini sull’origine della tradizione del Maneki Neko quale mascotte dispensatrice di buona sorte (come può essere, ad esempio, per la statua del cane Hachiko, che è un animale effettivamente esistito), qui ci muoviamo nel campo delle congetture, di tanti accadimenti romanzati e di tante leggende, tutti egualmente plausibili o vaghi, che sembrano tuttavia innestarsi su un substrato comune. Un personaggio famoso e potente (sia esso un condottiero o un signorotto feudale), mentre è in viaggio, viene attratto da un gatto; il personaggio si avvicina incuriosito al gatto, salvandosi così, in modo provvidenziale, da un cataclisma che gli sarebbe stato fatale se non si fosse spostato o avesse proseguito ignaro lungo il suo cammino.
Nei sobborghi di Tokyo sorge il santuario Gotoku-ji, dedicato al culto della dea Kannon ma che è famoso tra i turisti occidentali perché vi si venera anche il Maneki Neko. Nelle adiacenze del sancta santorum si ammassano letteralmente, su rastrelliere, migliaia di riproduzioni in ceramica del Maneki Neko, di taglie differenti.
Nella vulgata del Gotoku-ji, la storia del Maneki Neko si ricollega allo shogunato Togukawa. In quell’epoca (siamo nel ‘600) il tempio versava in uno stato d’assoluta indigenza. L’abate che si curava della sua conduzione possedeva un gatto. Un giorno, il daimyō Ii Naotaka con il suo corteo di servitori e guerrieri, passando dinnanzi al tempio, notò un gatto, che sembrava richiamarlo. Entrò così nel tempio dove venne accolto dall’abate che gli offrì una tazza di tè e lo intrattenne con un efficace sermone. Nel contempo scoppiò una devastante bufera, dalla quale il daimyō scampò grazie al fatto di trovarsi al riparo. Per riconoscenza e ammaliato dalle pillole di saggezza che aveva udito dall’abate, donò al santuario grano e terre, restituendogli così prosperità; molti membri del clan degli Ii sono attualmente sepolti in un fazzoletto di terra nel cortile del tempio.
Ricordo la visita al Gotoku-ji anche per un episodio a suo modo inusuale.
In un paese così maniacalmente votato alla diligenza, i convogli ferroviari viaggiano super puntuali, i ritardi sono sporadici, in genere concentrati nelle ore di maggiore affluenza e sui treni pendolari. In effetti solo in due occasioni mi è capitato di avere rogne con i treni: recandomi al santuario Fushimi Inari e appunto al Gotokuji. In entrambi i casi l’interruzione della linea dipese non da guasti tecnici o dal sovraffollamento ma da cause di forza maggiore, e cioè dalla scelta estrema d’individui che si suicidarono gettandosi sotto il treno. Non deve sorprendere la coincidenza, visto quanto incide questo tragico fenomeno nelle dinamiche della società nipponica. Il tasso di suicidi nel 2017 è stato pari a 16.7 ogni 100.000 abitanti (oltre 21.000 vittime in termini assoluti, in decrescita rispetto al passato, comunque una cifra importante; inoltre il 43.6% dei ritardi dei treni che superano la mezz’ora, entro un’area di 50 km da Tokyo, è dovuto proprio a suicidi).
Negli imprevisti, però, emerge la capacità di reazione dei giapponesi, supportata da un apparato organizzativo perfettamente oliato. Altrove, in frangenti analoghi, l’utente sarebbe stato abbandonato al proprio destino, incerto sul da farsi, se tergiversare, cioè, augurandosi che la situazione si normalizzasse o se cercare un altro mezzo di trasporto. Invece, schierati sul binario praticamente in tempo reale rispetto alla sciagura, alcuni inservienti attendevano i passeggeri per avvertirli del problema, distribuendo un opuscolo bilingue (giapponese e inglese) che suggeriva loro le possibili tratte alternative con i relativi tempi di percorrenza.
Confezioni regalo. Provate a fare un acquisto e osservate la perizia e la dedizione con cui vi viene confezionato l’oggetto dal commesso. Talvolta l’involucro è persino più bello dell’oggetto che contiene. Avevo comprato nel grande santuario di Fujiyoshida ai piedi del Monte Fuji un ema con impressa una vivace veduta del vulcano (gli ema sono tavolette di legno di foggia trapezoidale, con raffigurazione che possono ispirarsi alla divinità del tempio, allo zodiaco, a elementi del paesaggio, ecc. e che vengono appesi dai fedeli in bacheche o scansie dopo che vi hanno annotato un desiderio; l’auspicio è che il dio lo esaudisca).
La Miko (le Miko sono volontarie laiche addette ai servizi del tempio), che gestiva la vendita del merchandising del santuario, me lo impacchettò in un cofanetto meraviglioso, al punto che conservo entrambi.
Ricetta del Tamagoyaki
Ingredienti (per una persona):
- 1 uovo medio
- 1 cucchiaio di brodo dashi (o vegetale o si può omettere)
- 1/2 cucchiaio di mirim
- 1/2 cucchiaio di soia (usare salsa di soia dolce)
- una presa di sale
- 1 cucchiaio da tè di zucchero
- 1 cucchiaio raso di fecola di patate (o maizena)
- acqua q.b.
Il Tamagoyaki (“tamago” uovo e “yaki” alla griglia, grigliato) è un tipico street food giapponese ma può diventare una prelibata guarnizione per il Nigiri sushi (una fetta d’omelette viene sovrapposta alla polpettina di riso del Nigiri e confezionata con una striscia di alga Nori) o trasformarsi in uno sfizioso finger food.
Naturalmente si può adattare la ricetta ai propri gusti con l’aggiunta d’erbe aromatiche e spezie a piacere (ad esempio semi di sesamo, curcuma,ecc.).
Sarebbe auspicabile procurarsi la specifica padella, “Makiyakinabe“, di forma rettangolare, con il lato corto opposto a quello immanicato che presenta il bordo leggermente svasato all’esterno. Si può facilmente acquistare on line. Le dimensioni partono da circa 11 x 18 cm (per una porzione), il prezzo è ragionevole, dai 10-11 ai 25-30 euro, in base alla qualità del prodotto.
Prepariamo innanzitutto il brodo dashi.
Ci occorreranno 4 tazze d’acqua, 10 gr. di tonno bonito in scaglie (“Katsuobushi” – in Giappone è venduto anche in panetti da grattugiare, talmente compatti che sembrano ciocchi di legno fossile), un pezzo da 10 cm. circa di alga Kombu essiccata (l’alga va strofinata delicatamente con un panno inumidito, stando attenti ad asportare solo parzialmente la sapida patina biancastra, che non è una muffa ma è dovuta all’affiorare dei sali contenuti dall’alga stessa; successivamente praticheremo 5 tagli, a foggia di pettine, al nostro pezzo d’alga lungo il lato corto).
Ammolliamo l’alga un quarto d’ora per reidratarla; portiamo quindi l’acqua a bollore. Non appena iniziano a formarsi le prime minute bollicine sulla superficie, estraiamo dall’acqua l’alga Kombu e abbassiamo la fiamma al minimo. Incorporiamo le scagliette di tonno e riportiamo a bollore. Quando l’acqua bolle, spegniamo il fuoco e lasciamo riposare circa 5 minuti. Filtriamo il brodo.
L’alga Kombu viene rimossa prima del bollore perché altrimenti conferirebbe un sapore troppo deciso al brodo.
Tutti gli ingredienti più inconsueti di questa ricetta possono essere comprati nei negozi etnici asiatici o online. Se vogliamo risparmiare (una confezione di Katsuobushi da 40 gr. può arrivare a costare 7 – 8 euro) perché la quantità di brodo dashi che ci serve è infinitesimale e non sapremmo che farcene di quello avanzato, possiamo ometterlo dagli ingredienti del Tamagoyaki o sostituirlo con del brodo vegetale o fumetto, volendo preservare un sentore di mare.
Amalgamiamo in una ciotola l’uovo (sbattendolo appena), il mirim, lo zucchero, la soia, la presa di sale e il dashi. Stemperiamo la maizena (o fecola di patate) nell’acqua, mescolandola a sua volta al nostro composto. Alcuni aggiungono del sakè (1 cucchiaio. In realtà il termine sakè è generico e ingloba tutte le bevande che hanno una gradazione alcolica, per il vino di riso fermentato il vocabolo più appropriato sarebbe Nihonshu); per gusto personale spolvero con origano e/o timo essiccati. Talvolta uso lo za’atar (un mix mediorientale di timo, origano, sale e semi di sesamo).
Ungiamo con un pennello alimentare la nostra padella e, a fiamma media, lasciamo che il fondo si scaldi. Versiamo 1/3 del composto, stendendolo uniformemente su tutta la superficie della padella. Ci serviremo di una spatola o dei caratteristici bastoncini (ohashi); la massaia giapponese, in fase di preparazione delle vivande, ne adopera di più lunghi rispetto a quelli che vengono impiegati per mangiare (saibashi). La perizia dei giapponesi nel destreggiarsi con i bastoncini, manovrandoli come fossero delle pinze, è essa stessa una forma d’arte.
Se si creano dei rigonfiamenti sulla superficie della nostra “sfoglia d’omelette”, dobbiamo forare le bolle con la punta dell’ohashi o con i rebbi della forchetta. Una volta che l’uovo ha acquistato consistenza, iniziamo ad avvolgerlo su se stesso, partendo dal lembo che aderisce al bordo svasato della padella. L’utilizzo d’entrambi i bastoncini (o di una spatola) ci agevola nel ripiegare l’omelette a sigaro.
Al termine dell’operazione, avremo un primo rotolo d’omelette contiguo al lato immanicato. Ungiamo di nuovo la padella e versiamo un’altro terzo di composto. Lo spandiamo di nuovo sul fondo della padella, facendolo filtrare anche sotto il rotolo già sagomato. Non appena si solidifica, ripetiamo l’operazione, arrotolando l’omelette questa volta da sinistra verso destra. Riportiamo il rotolo dal lato del manico e versiamo l’ultimo strato di composto, procedendo come sopra.
Possiamo affettare e impiattare il Tamagoyaki con un taglio perpendicolare o obliquo senza ulteriori passaggi oppure, se vogliamo conferirgli una forma più regolare, a siluro, useremo il maki-su per modellarlo – il maki-su è la stuoia di stecche di bambù unite da fili di cotone, indispensabile per creare i “maki” di sushi (futomaki o hosomaki, a seconda del numero di ingredienti della farcia).
In mancanza del maki-su, stendiamo su un tagliere un foglio di pellicola trasparente per uso alimentare. Avvolgendo il rotolo d’omelette come fosse un salsicciotto, eserciteremo pressione con le dita per dargli una foggia il più possibile cilindrica.
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